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Alessia Araneo - IL "PRINCIPIO DESIDERANTE" TRA NATURA E ARTIFICIO

PANEL NATURALE/ARTIFICIALE

I. Bios e techne, tra continuità e discontinuità

Che un robot sia diverso da un essere umano è evidente; altrettanto evidente è quanto un essere umano sia differente da un pesce, quanto quest’ultimo lo sia da una barca; e ancora la barca da un’onda e l’onda da una particella di carbonio, etc.

Differenze “organolettiche”, per così dire, che saltano subito all’occhio (fatta eccezione per la particella di carbonio!) e che ci aiutano a discernere e a classificare cose e persone. Le distinzioni macroscopiche più diffuse sono quelle tra vivente e non vivente, naturale e artificiale.

Malgrado l’apparente semplicità, distinguere nettamente una categoria dall’altra è piuttosto complesso. Numerosi sono infatti gli studiosi che hanno provato a tracciare un confine definitorio esatto tra le quattro dimensioni designate, per lo più accettando, infine, una inevitabile storicità e reciprocità dei concetti. Il riconoscimento della mutualità del rapporto esistente tra vivente e non vivente, naturale e artificiale non costringe, inesorabilmente, all’afasia, ma richiede uno sforzo teorico maggiore che, al di là delle semplificazioni, abitui lo sguardo alla straordinaria complessità della relazione.

Rispetto alla distinzione tra vivente e non vivente, oggi siamo in grado di ascrivere oggetti e soggetti all’interno di una o dell’altra categoria sulla base di alcuni principi individuati, nel tempo, dalla comunità scientifica (nella convenzionalità di questo accordo risiede la sua storicità).

L’antinomia, invece, naturale-artificiale, su cui attesteremo la nostra attenzione, è oggetto di una costante risemantizzazione operata da filosofi, antropologi, etologi, etc.

Da sempre oggetto e strumento di indagine filosofica, la distinzione tra natura e artificio lungi dal costituire un mero virtuosismo teorico ha a lungo condizionato lo sviluppo della cultura occidentale, rafforzando un preciso posizionamento e atteggiamento dell’essere umano verso il mondo.

Per meglio comprendere l’ascendente esercitato dall’opposizione teorica tra bios e techne,[1] natura e tecnica,[2]occorre compiere un piccolo sforzo “genealogico” e stanare la premessa ermeneutica sottesa alla predetta dicotomia.

E questa premessa consiste nella presunta insufficienza del corredo biologico dell’uomo. Presunzione che ha attraversato i secoli, fino a divenire la pietra miliare di una rappresentazione antropologica antropocentrica.

Rappresentazione, quest’ultima, che tanto deve alla tradizione rinascimentale, nel corso della quale si consolida l’idea che a contraddistinguere l’essere umano siano una natura indefinita e una capacità poietica autodeterminante: diversamente da quanto accade per tutti gli altri esseri viventi, pare che la natura dell’uomo sia meno determinata, e dunque meno cogente, e che sia compito dello stesso quello di provvedere, in virtù del suo distintivo libero arbitrio, alle proprie strutturali mancanze.

Nitide, a questo proposito, le parole di Pico della Mirandola:

Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu, non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine.[3]

Un uomo, quindi, che può essere bruto o imago Dei, che si pone quale cinghia di trasmissione tra la sfera terrena e quella celeste, un uomo la cui connotazione precipua è quella di non essere vincolato al solo dominio delle leggi − entro cui si iscrive la dimensione prettamente biologica di ciascun vivente − ma di trascendere il medesimo attraverso la libertà di forgiare sé stesso, ossia autodeterminandosi. La natura dell’uomo di Pico della Mirandola non è cogente e costrittiva, ma aperta e suscettibile rispetto all’arbitrio umano. La dimensione di libertà che connota l’essere umano è quella che si espleta e si estrinseca attraverso la sua capacità creatrice o poietica; una capacità che non soggiace a leggi, ma che genera forme inedite di vita, consentendo a ciascuno di noi di essere creatore, dunque responsabile, della propria biografia.

Libero di plasmare il proprio destino e dotato di una importante capacità creatrice, l’uomo forgia gli strumenti tecnici, e più generalmente culturali, che gli occorrono per governare, manipolare e indirizzare l’originaria natura indefinita.

Ed è così che natura e cultura, bios e techne si configurano quali domini caratterizzanti l’essere umano, alternativamente considerati in opposizione o in continuità.

La posizione interstiziale dell’uomo, che si pone sulla soglia tra la pre-determinazione della componente biologica e quello spazio di libertà in cui si esprime la sua attività creatrice, costituisce il motivo per cui il rapporto tra natura e cultura è di così difficile determinazione.

Dimenticato da Epimeteo e supportato da Prometeo, l’uomo è (o diventa) un essere biologico e culturale.

II. Il paradigma antropologico della carenza

La natura indeterminata di cui scrive Pico della Mirandola assume, nel corso dei secoli e sempre più chiaramente, l’aspetto della mancanza, della carenza. Colui che ha puntualmente formalizzato questo concetto di originaria insufficienza – che ha il proprio inevitabile corrispettivo nell’idea di una tecnica suppletiva e compensativa – è stato Arnold Gehlen.

Non posso considerarmi innocente della colpa di aver insieme allargato il concetto di «essere carente» nonostante la confessata validità soltanto approssimativa di questo concetto, che in primo luogo deve servire a richiamare l’attenzione sul fatto che l’uomo in qualsiasi ambiente naturale è incapace di vivere per carenza di organi e istinti specializzati. Senza un ambiente specifico della specie al quale fosse adattato, senza uno schema innato di movimento e comportamento (e ciò negli animali significa “istinto”), per carenza quindi di specifici organi e istinti, povero di sensi, privo di armi, nudo, embrionale nel suo habitus, istintivamente insicuro già per via del farsi sentire interiore dei suoi impulsi, egli è chiamato all’azione, alla modificazione intelligente di qualsivoglia condizione naturale incontrata.[4]

Orfano di istinti e nudo, l’uomo deve, di necessità, ricorrere all’azione, cioè alla tecnica, per superare questo stato di languore e sviluppare quell’adattamento all’ambiente che sembra essere innato negli altri animali.

Il mondo della tecnica è quindi, per così dire, il “grande uomo”, geniale e ricco d’astuzia, promotore e insieme distruttore della vita come l’uomo stesso, come lui in poliedrico rapporto con la natura vergine. Anche la tecnica è, come l’uomo, nature artificielle.[5]

Il filosofo, dunque, distingue tra una “natura vergine”, da un lato, e una “nature artificielle”, dall’altro, come se esistesse una dimensione naturale incontaminata e pura in rapporto a una dimensione umana ibrida e artificiale.

Una bipartizione, in definitiva, che si innesta sulla presunta insufficienza del corredo ontogenetico dell’uomo. Tanto questa premessa quanto le sue conseguenze sono state sconfessate e ribaltate dalla più recente antropologia postumanistica, di cui Roberto Marchesini si è fatto corifeo.

III. Il rovesciamento ermeneutico operato da Roberto Marchesini

Marchesini sovverte radicalmente la premessa formalizzata da Gehlen e giunge ad affermare che a caratterizzare la condizione primigenia dell’essere umano non sia una strutturale carenza, bensì, per converso, una ridondanza di possibilità biologiche.

Nella prospettiva di Marchesini, l’essere umano è contraddistinto da un eccesso di potenzialità, ossia di virtualità che si specificano soltanto all’interno di una relazione. L’uomo, dunque, altro non è che un ricettacolo di illimitate possibilità che si realizzano e concretizzano sempre in rapporto a qualcosa o a qualcuno, a un partner biologico o macchinico. È come se dovessimo immaginare lo sviluppo dell’essere umano non più secondo una progressione crescente, una costante aggiunta dallo stadio zero in avanti, ma, al contrario, come un lento processo di definizione e di preferenza, che comporta l’inevitabile eliminazione di tutte le possibili relazioni che non sono state intraprese.[6]

L’antropologia che in questo modo si prefigura è, per un verso, inevitabilmente eteroriferita e coniugativa (dal momento che è soltanto la presenza di un partner a trasformare l’originaria virtualità in azione) e, per altro verso, selettiva rispetto alla ridondanza iniziale.

Sono queste le considerazioni che inducono Marchesini ad abbandonare una ontologia essenzialistica, fissista, solipsistica e autarchica a favore di una soggettività che nasce e prende forma nella promiscuità ontologica.[7] Il soggetto, quindi, si identifica come tale e si delimita solo a partire dai rapporti che intrattiene con l’alterità, organica o inorganica che sia.

All’interno di questa rappresentazione antropologica, come si deduce, la tecnica e i suoi prodotti cosiddetti “artificiali” non si definiscono come alcunché di distinto dalla natura vergine, bensì come l’esito fisiologico di una processualità ibridativa. Non esiste, dunque, alcuna idea di natura pura, monadica, fissa e impermeabile, in cui si innesterebbe l’essere umano come qualcosa di distinto.

L’uomo e la sua tecnica co-appartengono alla natura, di cui rimodulano costantemente gli assetti e gli equilibri secondo una reciprocità che Marchesini ha definito attraverso il processo della retroazione.

In natura infatti qualsiasi modificazione al sistema non produce solo una cascata di effetti spinti a valle, ma il più delle volte alcuni di questi effetti ritornano al sistema di partenza (meccanismo di retroazione) innescando un processo ciclico che può stabilizzarsi (feedback negativo) o amplificarsi (feedback positivo). L’utilizzo tecnologico perfezionandosi e acquisendo un ruolo di primo piano nella fitness della specie viene a tutti gli effetti iscritto nel patrimonio biologico di quella popolazione attraverso un meccanismo di retroazione. Innanzitutto la presenza di una prestazione ibrida – ossia biologica (il braccio) e tecnologica (la clava) – sposta o comunque modifica la pressione selettiva agente sul substrato biologico, secondariamente il partner strumentale diventa a sua volta fomite di una nuova e differente pressione selettiva, riferita alla capacità del substrato biologico di portare alla massima efficacia le potenzialità dello strumento.[8]

Se tutti gli strumenti tecnologici extra-corporei intervengono sul soggetto, modificando la sua fitness e dunque il suo successo evolutivo, la reciprocità dell’azione (la retroazione) tra soggetto e alterità diventa palmare nel caso della tecnologia intra-corporea, laddove l’intervento e il condizionamento della prestazioni risultano evidenti perché immediati.[9]

Le tanto diffuse e per certi versi contestate tecnoscienze esemplificano in modo plastico quella continuità organica che sussiste tra l’elemento naturale e quello artificiale: il primo termine contiene in sé il seme del secondo e viceversa, in un rapporto di inevitabile correlazione.

Nell’ormai consolidata critica della tradizionale visione filosofico-antropologica, oppositiva di bios (…) e techne(…) si definisce oggi, nell’ambito del processo di accelerazione del mutamento delle condizioni e delle modalità dell’esistenza vivente, un nuovo spazio di pieno riconoscimento del segno coniugativo dell’evoluzione umana.

Tale coniugatività evolutiva, sia dal punto di vista biologico che culturale, scioglie questa tradizionale opposizione e, al tempo stesso, indica l’inizio di una nuova “danza coevolutiva” – in cui cioè selezione e variazione si coappartengono – sulla scorta della ripresa aggiornata del modello darwiniano, integrato dallo sviluppo della ricerca genetica e della biologia molecolare e delle tecnologie ad esso connesse.[10]

IV. Il moto di antropo-decentramento e l’obbligo della cura

Il riconoscimento del segno coniugativo dell’evoluzione umana dà impulso a un inevitabile moto di antropo-decentramento: l’originarietà della relazione fa dell’essere umano non più il “signore della natura”, ma uno tra gli esseri viventi che la popola. Una relazione al di là della quale non può darsi alcuna forma di vita. Una relazione, quindi, che − di necessità e non solo per puro spirito di simpatia − esige rispetto per tutti i suoi componenti.

Un rispetto, che, nel caso dell’essere umano, assume i connotati distintivi della cura.[11]

Se è vero che qualsiasi vivente si genera e si sviluppa soltanto all’interno di una relazione (sia essa instaurata con un partner batterico, neurale, biologico, farmacologico, macchinico, etc. che sia), allora si comprende con più facilità come l’eventuale danno procurato a spese dei nostri partner si ripercuota, più o meno direttamente, sulle nostre esistenze.

L’esempio macroscopico che si impone con maggiore urgenza chiama in causa il nostro rapporto con l’ambiente, finora svoltosi nel segno del dominio da parte dell’essere umano. Smantellare la mendace convinzione del fatto che l’essere umano possa disporre ad libitum dell’ambiente in cui vive e delle sue risorse e accettare, invece, che proprio la salubrità dell’ambiente costituisce la prioritaria condizione di possibilità e di esistenza del vivente determina la messa in atto di approcci e comportamenti radicalmente differenti da quelli sino ad oggi praticati.

Non già, dunque, un dominio dell’uomo sulla natura, ma una irrevocabile interdipendenza tra i due elementi.

Se a questa sorta di metanoia – che è il precipitato della filosofia del Postumano[12] − non si fa corrispondere anche una coerente batteria di condotte e discipline,[13] si rischia di alimentare un rapporto morboso e nocivo nei confronti del nostro habitat che, sul lungo termine, potrebbe rivelarsi addirittura suicidario per il genere umano, in virtù della fondamentale relazione che ci tiene avvinti.

È in questo senso che non possiamo immaginare forme di relazione che siano diverse da quelle della cura, pena la nostra stessa sopravvivenza.

Così, quel robot, quell’essere umano, quel pesce, quella barca, quell’onda e quella particella di carbonio che sembravano così, evidentemente, dissimili, sembrano iscriversi, adesso, all’interno del medesimo ordine, ossia quello della relazione. A tenerli insieme è un rapporto di inesorabile coappartenenza al medesimo cosmo, secondo una altrettanto inevitabile interdipendenza.

Quel robot è stato costruito da un essere umano che, a sua volta, nel demandare molte delle sue occupazioni al partnermacchinico, ha modificato il proprio aspetto e buona parte delle funzioni che un tempo svolgeva.

Allo stesso modo, quella barca, realizzata dall’essere umano – costituito anche di carbonio, nutrito dal pesce e coadiuvato dal robot nella costruzione dell’imbarcazione – esercita pressione sul moto dell’onda; la stessa onda che, nell’essere sottoposta al peso della barca, ne condiziona le direzione e ne usura, lentamente, il legno.

Citando il titolo di un film, se la apparente differenza tra questi elementi è molto forte, la loro relazione è incredibilmente vicina.

V. Il principio desiderante

Se, tuttavia, l’elemento artificiale e quello naturale sono così embricati tra loro, ciò non li rende, ipso facto, indiscernibili. E questo per numerose ragioni relative alla composizione e alla disposizione degli elementi, alla loro capacità di relazione, di percezione, di propriocezione, di emozione, di elaborazione del pensiero, etc.

Eppure, seguendo anche in questo caso l’analisi svolta da Roberto Marchesini, quello che sembra non poter appartenere in alcun modo – almeno ad oggi – alla dimensione artificiale, non vivente, è quello che lo studioso chiama «principio desiderante» e che attribuisce per lo più alla animalità.

Marchesini scrive:

L’essere-desiderante è il non contenersi, il possedere delle copule o dei leganti che riportano e coniugano il qui-e-ora dell’individuo alla realtà esterna, dando luogo ad atteggiamenti proposizionali. Questo rende l’”animalità” una “dimensione peripatetica”, ossia: i) uno stato di continua inquietudine, un movimento interiore caratterizzato dall’oscillazione tra languore e appagamento, e di costante attrazione verso il mondo, da cui il meravigliarsi come prima condizione dell’essere animale, presupposto emozionale e cognitivo; ii) una prospezione dialogante con la realtà esterna, in grado di far emergere dal reale una personale prospettiva, (…) Nasciamo con questa fame remota, inspiegabile, capace di assolvere i bisogni fisiologici più concreti, come mangiare e riprodurci, ma al tempo stesso svincolata da essi. (…) Il desiderio è ciò che rende il mondo esterno un campo di agibilità, altrimenti l’individuo non avrebbe alcun motivo per agire (…).[14]

Il principio desiderante, diverso dal mero bisogno,[15] viene descritto da Marchesini come un metapredicato distintivo della soggettività animale: un primevo languore, un «desiderio privo di contenuto»[16] che muove il soggetto all’azione, sottraendolo all’atemporalità vegetativa e inserendolo in un tempo storico. Metapredicato poiché si colloca prima dell’azione situata in un preciso spazio-tempo e poiché definisce la stessa condizione di possibilità della soggettività. Cioè, il principio desiderante è il primo “marcatore” della soggettività.

Il desiderio, quale tensione dialogante aperta al mondo, trascende il bisogno e proietta la soggettività animale al di là del campo della necessità:

vivo in quanto desidero, vivo nel sentirmi coinvolto, vivo perché proiettato nel mondo esterno, e non auto-contenuto/riferito, vivo perché preso dallo stupore, perché sono sensibilmente attratto e meravigliato dal mondo, perché la passione m’invade e dà forma alla mia presenza. (…).

Pensiamo perché desideriamo, non il contrario: ed è nel principio desiderante che ritroviamo l’animale.[17]

Marchesini scrive di una «fame remota»[18], la stessa che induce l’animale a nutrirsi, ma che non si esaurisce in questo appetito e continua ad anelare, chiedere, cercare. Un desiderio, dunque, che è una forza proiciente, che dà impulso alle azioni, le attraversa e le supera, irrimediabilmente.

Ebbene, questa radice desiderante che precede anche il pensiero – essendo lo stesso mosso proprio da quella apertura coniugativa al mondo – è quanto sembra contraddistinguere la soggettività animale e quanto, mi permetto di aggiungere alla interpretazione di Marchesini, difficilmente potrà appartenere a una qualche forma di artificialità.

Questo desiderio originario, al fondo insoddisfacibile, incompiuto, misterioso e irrequieto è difficile da riprodurre, trasmettere, inoculare e persino raccontare: è, forse, qualcosa che precede la vita stessa.

Tornado al tema dell’intervento, distinguere nettamente e chiaramente “naturale” e “artificiale” è complicato: tra i due, si situa l’opera dell’uomo che, naturalmente, è indotto a manipolare il proprio ambiente e ad esserne, a sua volta, modificato. Quella dell’uomo è una biologia non caratterizzante che induce, inevitabilmente e ancora una volta naturalmente, alla ricerca di strumenti che possano trasformare il mondo, ossia la tecnica.

Una posizione interstiziale, quella dell’essere umano, che in sé agglutina elementi naturali e artificiali, ponendoli lungo una linea di continuità e di interdipendenza.

Se, infine, di netta discontinuità tra i due elementi si può parlare, questa, probabilmente, potrebbe risiedere in quel principio desiderante a cui, sulla scorta degli studi di Marchesini, abbiamo fatto riferimento.

Prima e al di là delle categorie di naturale e artificiale c’è una soggettività desiderante che, nel suo moto perpetuo teso tra il languore e la sua soddisfazione, risponde alla propria natura utilizzando l’artificio.

[1] Nel testo utilizzo il termine techne alla stregua di un iperonimo, che comprende al proprio interno anche l’”artificiale”; ossia considero la tecnica l’alveo entro cui si iscrive e si genera quanto si reputa, appunto, artificiale. [2] Poste le dovute differenze tra tecnica e tecnologia, laddove la prima si identifica con la capacità tutta umana di realizzare artefatti funzionali e la seconda con la trasformazione del logos in technos (per approfondimenti, P.A. Masullo, L’umano in transito. Saggio di antropologia filosofica, Edizioni di Pagina, Bari 2008), nel presente lavoro, spesso, il termine tecnica è utilizzato lato sensu, ossia con accezione ampia, comprensiva della sua estensione alla tecnologia. [3] G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, E. Garin (cur.), Edizioni della Normale, Pisa 2012, pp. 3-7. Per approfondimenti sul tema, M. Ciliberto, Il nuovo umanesimo, Laterza, Bari 2017. [4] A. Gehlen, La tecnica vista dall’antropologia, in Prospettive antropologiche: per l’incontro dell’uomo con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, il Mulino, Bologna 1987, p. 129. [5] A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici dell’età industriale, Sugarco Edizioni, Milano 1984, p. 33. [6] Puntuali sono le parole di Luciano Floridi, che sottolinea l’importanza della morte cellulare programmata per la conservazione della salubrità dell’organismo: «L’apoptosi, conosciuta anche come morte cellulare programmata, è una forma naturale e normale di autodistruzione in cui una sequenza programmata di eventi conduce all’autoeliminazione di cellule. L’apoptosi gioca un ruolo cruciale nello sviluppo e nella conservazione della salute di un corpo (…).», L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2017, p. 195. [7] Cfr. R. Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002. [8] R. Marchesini, Bioetica e biotecnologie. Questioni morali nell’era biotech, Apéiron, Bologna 2004, p. 30. [9] Rispetto al dibattito in corso relativo alle tecnoscienze e all’opportunità di trattarle alle stregua di un ulteriore e coerente sviluppo della tecnica oppure come qualcosa di radicalmente nuovo e inedito, Marchesini si pone su una linea continuista, dal momento che non individua nell’avvento delle biotecnologie uno scarto qualitativo tra queste ultime e le tecniche da sempre utilizzate dall’uomo, bensì una radicale uniformità che risiede nell’effetto retroattivo generato da entrambe, in maniera più o meno diretta. [10] P.A. Masullo, L’umano in transito. Saggio di antropologia filosofica, Edizioni di Pagina, Bari 2008, p. 11. [11] Sul tema della cura con specifico riferimento alla dimensione epimeletica quale tratto distintivo dei mammiferi, mi permetto di rinviare al mio contributo all’interno del volume L. Alici – F. Miano (cur.), L’etica nel futuro, Orthotes Editrice, 2020. [12] L’espressione “filosofia del Postumano” non è del tutto appropriata, dal momento che è difficile riferirsi alla cultura postumanistica come a un codice univoco e unitario di pensiero. Si tratta, piuttosto, di una sorta di arcipelago che contempla al proprio interno una pluralità di posizioni teoriche non del tutto assimilabili. Quel che rileva, in questa circostanza, è che, tendenzialmente: «L’etica postumana per un soggetto non unitario propone un profondo sentimento di interconnessione tra sé e gli altri, inclusi i non umani e gli “altri della terra”, attraverso la rimozione rappresentata dall’individualismo autocentrato», come si legge in R. Braidotti, Il Postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 57. [13] È Giovanni Leghissa a evidenziare la necessità di far seguire a un posizionamento teorico postumanistico una condotta di vita, individuale e collettiva, coerente. Egli assimila la cultura postumanistica a una forma di spiritualità, secondo l’accezione foucaultiana, da intendersi, cioè, come una serie di condotte individuali che assumono un senso per il soggetto, anche in assenza di una chiara consapevolezza filosofica. Scrive il filosofo: «La postumanità intesa quale atteggiamento che si basa sulla percezione di una sostanziale comunanza di destino tra tutti i viventi può contribuire a diffondere un pensiero utopico che contempli l’integrazione di umani e non umani in una sorta di democrazia dei collettivi, una democrazia, cioè, in cui acquista un peso determinante la discussione sul modo in cui gli umani interagiscono con l’ambiente e con gli attori non umani che con noi lo condividono. In altre parole, l’atteggiamento postumanistico contribuisce a generare la percezione che la custodia di tutte le forme di vita sia un valore che può essere giustificato facendo ricorso al fatto che esiste una oggettiva interdipendenza tra i viventi che condividono con noi la medesima nicchia ecologica», G. Leghissa, Postumani per scelta, Mimesis, Milano 2018, pp, 56-7. [14] M. Celentano, R. Marchesini, Pluriversi cognitivi. Questioni di filosofia ed etologia, Mimesis, Milano 2018, p. 169. [15] «È il caso del gattino che, anche con la ciotola piena, ha comunque bisogno di rincorrere qualunque oggetto in movimento, è preso dallo stupore e dal coinvolgimento di fronte a una pallina che rotola o un filo che elonga lungo l’asse di una tavola, quasi che il mangiare non sia altro che una conseguenza, un effetto collaterale, di qualcosa di più profondo, di una passione che fa vibrare tutto il suo essere», ibidem. [16] Ivi, p. 168. [17] Ivi, pp. 170-1. [18] Ivi, p. 169.

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