Il blog della SIFM
Bruno Moroncini - Stare a distanza
Forse mi sbaglio, ma a me sembra che sia la prima volta che nella lunga storia delle epidemie sia stato utilizzato come mezzo di contrasto alla diffusione del contagio il cosiddetto distanziamento sociale di cui l’invito (o il comando) di restare a casa è solo il mezzo più facile per farlo rispettare. Il piano nazionale per la prevenzione delle epidemie approvato dall’Italia nel 2005 su suggerimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità non ne fa cenno. Prevede, come è ovvio, l’isolamento e la quarantena per il contagiato, la possibilità di chiudere le scuole, il divieto di assembramento, ma non dice niente sulla necessità di stare tutti almeno ad un metro di distanza l’uno dall’altro. In controtendenza con tutto il gran parlare, al limite della ciarla per la verità, del bisogno, naturale e imprescindibile, di abbracciarsi, baciarsi, toccarsi, accarezzarsi, stare in un costante corpo a corpo (espressione che, guarda caso, indica anche lo scontro, la lotta e forse l’odio), io penso che il distanziamento sociale sia un segno di grande civiltà. Dalla “spagnola” in poi, la società occidentale aveva creduto di aver messo la parola fine alla lunga sequela delle epidemie – peste, vaiolo, colera etc. – che dalla antica Grecia ai primi del Novecento avevano scandito la sua storia. Nell’arco di tempo che separa la “spagnola” dal coronavirus, i progressi della medicina (ma più che altro delle sue scienze di riferimento) dalla scoperta della penicillina in poi, il miglioramento generale delle condizioni igieniche e le politiche di welfare, sembravano aver reso Virusfrei il nostro mondo. Tanto più quindi la comparsa di CoViD-19 è stata un vero e proprio choc: al di la delle anticipazioni fantascientifiche o catastrofiste, tutti erano completamente impreparati e non c’era sistema sanitario, pubblico o privato, in grado di resistere. Per questo è stato sorprendente, non solo che al mondo medico-scientifico questa volta sia venuto in mente che il modo migliore per ridurre la diffusione del contagio era il distanziamento sociale, ma soprattutto che questa misura, a parte gli inguaribili anarchici piccolo borghesi che debbono portare a spasso il cane, sia stata fatta propria dalla grande maggioranza della popolazione e in tutto il mondo senza troppe difficoltà. Come notava qualche giorno fa Emanuele Trevi sul Corriere della sera, «l’obbedienza cieca della maggioranza, con tutte le conseguenze assurde che ha comportato (non poter comprare una pentola ma in compenso pennarelli e quaderni d’ogni tipo come si racconta nell’articolo), ha salvato migliaia, centinaia di migliaia di vite, ed è stata un’esperienza unica, benefica, che valeva la pena di vivere dal punto di vista della psiche individuale e delle sue possibilità». A parte qualche filosofo (ahimè!) che, per citare ancora Trevi, si è fatta venire questa «idea da somari» secondo la quale il distanziamento sociale sarebbe «la prova generale di una dittatura», tutti gli altri hanno capito che stare a distanza è la forma materiale con cui si dimostra il rispetto verso sé e soprattutto verso gli altri. Il punto vero è che nel nostro mondo attuale, dedito ad una incestuosità generalizzata, in cui cioè, al modo di Lucrezio, tutto copula con tutto, la distanza fisica e morale è vista con sospetto. È considerata indice di spocchia, senso di superiorità, rifiuto dell’altro. Siamo o non siamo democratici ed egualitari? Nonostante il proclamato individualismo, tendiamo a stare incollati l’uno all’altro, ammassati come le sardine, stretti da nodi indissolubili. Parlando, nella Metafisica dei costumi, dell’amicizia come della perfetta unione dell’amore e del rispetto (Achtung), Kant, dopo aver chiarito che una persona che dimostri di amarne un'altra con ardore non l’autorizza con questo a mancarle di rispetto, precisa che «si può considerare l’amore una specie di attrazione, e il rispetto come una specie di repulsione, così ché il principio della prima esige l’avvicinamento, mentre quello della seconda richiede che ci si tenga ad una distanza (Abstand) conveniente l’uno dall’altro». In conclusione, la
massima cui dovrebbe attenersi la nostra volontà sarebbe questa: «nemmeno i migliori amici debbono trattarsi troppo familiarmente», soprattutto se sono anche dei ‘familionari’. Non bastasse Kant, Giordano Bruno dà alla distanza una portata cosmica: parlando nella Cena delle ceneri della «provida potenza del dio che vuole portar pace fra i suoi sublimi figli», ossia gli astri nel cielo, nota che essi «non si confondeno insieme, ma con certe distanze gli uni si moveno circa gli altri». E se lo possono fare gli astri, figuriamoci noi, abitatori periferici dell’universo che girano intorno ad una stella in via di spegnimento.
