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Maria Silvia Vaccarezza - L'eroismo non è sovrumano

Non si può certo dire che il senso comune dell’Europa attuale – forse le cose al di là dell’oceano stanno diversamente – abbia in particolare simpatia l’idea stessa di eroismo morale.

Può darsi che sia il lascito di un’istintiva diffidenza per i santi da immaginetta, sospettamente forieri di esortazioni moralistiche: pie illusioni di perfezione, buone a procurare devoti desideri da oratorio; o, ancor peggio, forme astratte o universali - ma, a conti fatti, fin troppo particolari - cui adeguare una materia recalcitrante. E tuttavia, con buona pace anche del più accanito iconoclasta, come questo momento particolarmente rivelatore ci sta insegnando, l’atto del mostrare il pensiero in azione ha una forza irriducibile alla parola, alla verbalizzazione e alla concettualizzazione esplicita che gli si accompagnano o ne sono generati.

Di fronte allo smarrimento generalizzato, al contraccolpo sbigottito di trovarsi scaraventati, senza preavviso alcuno, in un angolo stretto e scuro della Storia, stiamo assistendo a una fame spasmodica, più che di teorie e spiegazioni, più che di parole e commenti, di esempi, si tratti di esseri umani in carne ed ossa o di narrazioni che li veicolino. Pare, cioè, caduto quel velo di cinismo più o meno pronunciato, per ostentare il quale noi figli compiuti della modernità ci sentivamo in dovere di abbozzare un sorrisetto di fronte all’eroismo, fare spallucce davanti allo stagliarsi imponente della grandezza, proclamare sprezzantemente adulta autonomia rispetto all’esemplificazione, buona come ciondolo per le masse, ma non per “noi”. Ed eccoci, spaventati, a scaraventare via in fretta e furia quella posa, e accendere la TV o aprire la finestra in cerca non tanto di parole, quanto di figure. Medici e infermieri pronti a dare la vita; Papa Francesco pellegrino solitario per le vie di Roma, o inginocchiato davanti all’Eucarestia in una deserta piazza San Pietro; ma anche vicini di casa, amici o conoscenti capaci di una qualche forza o verità, sia essa la premura silenziosa di fare la spesa per i condomini anziani o la prontezza gioiosa di salire sul tetto a cantare per il quartiere.

Eccoci, noi iconoclasti di ieri, oggi divenuti tutt’occhi e avidi di immagini, bisognosi di guardare. Eccoci, noi autonomi e indipendenti derisori dei simboli, cercare ora spasmodicamente un rito, una liturgia, un segno da cui trarre forza e sotto la cui egida sentirci meno spersi, magari perfino riuniti. Eccoci, fino a ieri lontani e incapaci di incontro su un terreno di memorie condivise, a cantare tutti insieme “Bella ciao” celebrando gli eroi della nostra Resistenza, forse cercando in loro una guida per un tempo non meno incerto e cupo. Beninteso, aveva ragione Italo Calvino, quando scriveva il testo della bellissima “Oltre il ponte”: «non è detto che fossimo santi: l’eroismo non è sovrumano»: gli impavidi ventenni che hanno rischiato la vita per la nostra libertà nella Resistenza non erano certo ideali di una rotonda perfezione, come, probabilmente, non lo sono gli eroi di oggi. Eppure, o forse proprio per questo, di guardarli non possiamo fare a meno: quando la Storia ci costringe a passare dalle pose all’azione, il bisogno di figure esemplari, negato in teoria, risorge potente nella pratica.

Non possiamo, neppure in nome di un’istanza sacrosanta di autonomia, fare a meno del particolarissimo ancoraggio a individui storicamente situati che incarnano il valore: farlo, ci restituirebbe un’immagine falsamente impoverita, dunque inutilizzabile poiché troppo distante dal piano della realtà dei fatti, dell’esperienza morale così come la conosciamo, e dunque una teoria inservibile, “da poltrona”.


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