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P. Biasetti e B. de Mori - NATURA E AMBIENTE: LE DUE FONTI NEL VALORE DELLA CONSERVAZIONE

PANEL NATURA/AMBIENTE

Pierfrancesco Biasetti 1,3 e Barbara de Mori 2,3

1 Leibniz-Institut für Zoo- und Wildtierforschung (IZW) im Forschungsverbund Berlin e.V., Alfred-Kowalke-Str. 17, 10315 Berlin, Germany

2 Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione, Università degli Studi di Padova, viale dell’Università 16, Agripolis, 35020 Legnaro PD, Italy

3 Ethics Laboratory for Veterinary Medicine, Conservation and Animal Welfare, Università degli Studi di Padova, viale dell’Università 16, Agripolis, 35020 Legnaro PD, Italy

Abstract

Nell'etica ambientale contemporanea c'è la tendenza ad adoperare i termini “natura” e “ambiente” come sinonimi. In realtà, non lo sono: esistono luoghi della natura (es. la superficie del sole) che non sono ambienti, e ambienti, invece, che non sono luoghi della natura (es. la libreria all'angolo della strada). Più che la natura in sé, o l'ambiente in sé, l'oggetto dell'etica ambientale andrebbe quindi definito come gli ambienti naturali e gli organismi che ne fanno parte. Questa precisazione è tutt'altro che semantica. Natura e ambiente, oltre a non coincidere come luoghi concettuali, sono anche luoghi del valore piuttosto diversi tra loro. Partendo da questo presupposto, il contributo cerca di approfondire la questione della base valoriale in merito alla conservazione della biodiversità.

Keywords

Natura; Ambiente; Etica ambientale; Conservazione della biodiversità; Etica applicata.

Word count

44k c.ca (abstract incluso)

1. Introduzione

I dati dell'odierna estinzione di massa sono – o dovrebbero – essere noti: un tasso di estinzione da cento a mille volte superiore a quello normale[1], popolazioni sempre meno numerose per molte specie, con una conseguente maggiore fragilità e povertà genetica[2], e una progressiva omogeneizzazione della diversità della vita sul pianeta. L’omogeneizzazione, in particolare, è evidenziata dalle stime sulla sua biomassa: quella di mammiferi e uccelli selvatici sarebbe meno di un decimo della controparte d'allevamento, e addirittura meno di un sesto di quella formata dai soli esseri umani[3].

Le principali cause di questi fenomeni sono da rintracciare in alcuni fattori di vasta portata, e nelle sinergie determinate dalla loro interazione: la perdita e la frammentazione degli habitat, dovute principalmente alla riconversione di ampi tratti di terra per l'uso agricolo, il cambiamento climatico, la competizione – dagli esiti spesso scontati – tra specie native e specie introdotte, e lo sfruttamento intensivo delle risorse del pianeta per far fronte alle necessità di una popolazione umana in vertiginosa crescita demografica.

In questo scenario, il tema della conservazione – della biodiversità[4], ma anche di tutto ciò che la sostiene e l'alimenta, come, per esempio, la geodiversità[5] – riveste un ruolo di assoluta importanza, se non altro per cercare di mitigare o almeno governare un processo – quello della sesta estinzione di massa – destinato a cambiare radicalmente e irreversibilmente il volto del nostro pianeta, e quindi anche il modo di esistenza della nostra specie su di esso.

In particolare, è importante articolare le risposte a una serie di domande centrali per la conservazione della biodiversità[6]: domande sul “perché” conservare, sul “che cosa” conservare, e sul “come” farlo[7]. L'etica ambientale – considerata qui limitatamente come la disciplina specialistica sorta sulla scia del tentativo di ripensare, anche in maniera radicale, il rapporto tra essere umano, mondo, e valori avvenuto a partire dagli anni settanta in ambito anglofono[8] – può fornire un contributo decisivo alla prima e alla seconda delle precedenti domande.

A questo proposito, si può ricordare che una delle critiche tradizionalmente avanzate all'etica ambientale è proprio quello di essersi soffermata quasi esclusivamente sulla dimensione valoriale, finendo così per abdicare alla propria vocazione applicata[9]. Nonostante l'indubbio elemento di verità in questo giudizio[10], proprio questa attenzione ha in realtà permesso di costruire nel tempo un'analisi approfondita di una delle frontiere del valore più originale e complesse. Ed è a partire da questa tradizione che si innesta questo contributo, nel tentativo di approfondire la questione della differenza tra i concetti di natura e ambiente quando si tratta di fornire una base valoriale all'ambientalismo e alla conservazione della biodiversità.

A tal proposito, si può avviare la discussione mettendo in luce una tendenza quasi incardinata nella disciplina: quella di adoperare, almeno a un certo livello generale di discorso, i termini “natura” e “ambiente” in maniera intercambiabile tra loro, come se attribuire valore all'uno equivalga attribuirne all'altro. Natura e ambiente, però, non solo non coincidono come luoghi concettuali, ma sono anche luoghi del valore piuttosto diversi tra loro.

2. Ambiente, natura e ambienti naturali

Significato ed etimologia[11] della parola “ambiente” rimandano allo spazio che ci circonda – in un senso, però, che travalica la mera collocazione: il circondarci dell'ambiente, infatti, è anche il suo offrirci le condizioni per la vita, per quanto minime (un ambiente “estremo”) o deteriorate (un ambiente “malsano”) esse possano talvolta essere.

Anche la natura ci circonda, ma come medium incredibilmente più vasto e, soprattutto, in larga parte neutrale nei confronti della possibilità per la vita di attecchire. Se è vero infatti che, necessariamente, non possono esistere ambienti in assenza della potenzialità di ospitare qualche forma di vita (se non in senso lato, poiché anche un oggetto, se visto attraverso un “atteggiamento intenzionale”, può avere il suo “ambiente”), un'amplissima porzione della natura non solo non contiene esseri viventi, ma nemmeno le condizioni minime per ospitarli.

Si potrebbe per questo concludere che la parola “ambiente” delimiti semplicemente un sottoinsieme all'interno dell'insieme denotato invece dal più capiente termine “natura”. Ma la questione si complica non appena ci accorgiamo della polisemia di quest'ultimo termine. John Stuart Mill, a proposito, identificava due significati fondamentali attorno al quale gravitano le diverse sfumature del vocabolo “natura”[12]. Da una parte, scriveva Mill, la natura come «somma di tutti i fenomeni assieme alle cause che li producono, includendo non solo tutto ciò che accade, ma anche ciò che è in grado di accadere»[13] – natura come contrario di sovrannaturale, quindi. Dall'altra, la natura come «tutto ciò che accade a prescindere dall'agire, o dell'agire volontario e intenzionale, dell'essere umano»[14] – natura come contrario si artificiale, in questo senso.

Nel suo primo significato, “natura” contiene “ambiente”. Non è così, però, non appena ci muoviamo nel secondo significato del termine. In questo caso, il dominio dell'ambiente non è più contenuto in quello della natura, poiché, a fianco degli ambienti definibili come naturali, ne esisteranno altri definibili invece come artificiali.

Sembra pacifico poter sostenere che è in questo secondo senso che il termine “natura” è solitamente adoperato nelle discussioni di etica ambientale. Secondo il primo senso, infatti, la nostra specie è da considerarsi una parte perfettamente integrata della natura, e non vi può essere nessun scarto, differenza o distanza significativa che spieghi l'assunto di partenza di ogni etica ambientale: l'esistenza di una qualche problematicità prima facie tra gli esseri umani e il mondo. Nel secondo senso, invece, questa distanza, e la relativa problematicità prima facie è data.

Rimangono però delle difficoltà nel determinare in maniera esatta l'oggetto dell'etica ambientale. Intuitivamente, infatti, sembrano esserci dei limiti nella sua identificazione coll'ambiente, che può anche essere non naturale (come accade, per esempio, per la libreria all'angolo della strada), o con la natura, che può anche non essere un ambiente (come accade, per esempio, per il nucleo terrestre o la superficie del sole).

Il problema sembrerebbe avere una facile via d'uscita nel luogo di intersezione tra i due concetti: gli ambienti naturali. Ma si tratta in realtà di una soluzione irta di insidie. Come si è già fatto notare, natura e ambiente costituiscono luoghi del valore diversi tra loro, e le principali famiglie di ragioni che si possono adottare per conservare gli ambienti naturali ricadono in uno o nell'altro. Ma non in entrambi. Questo significa che gli ambienti naturali non possiedono un loro valore autonomo: il valore è attribuito a essi solo indirettamente – in quanto ambienti, o in quanto natura.

Ambiente, natura, ambienti naturali quindi: quale di questi concetti è sensato considerare centrale per l'etica ambientale? Prima di cercare di dire qualcosa riguardo a questa domanda, è necessario però compiere un breve sorvolo su ognuna delle famiglie di ragioni di cui si è accennato in precedenza[15].

Nella prima tipologia, legata alla nozione di ambiente, cadono una serie di ragioni prudenziali, economiche e ricreative derivanti dai servizi forniti dagli ecosistemi[16]. Questi servizi includono la fornitura di risorse (potenzialmente rinnovabili) come cibo, acqua potabile e materiali, la regolazione dei cicli globali (clima, maree, impollinazione, ecc.), la produzione di valori culturali e ricreativi[17], fino al supporto basilare alla vita legato al ciclo dei nutrienti, alla formazione del suolo, e ai produttori primari che formano il livello base delle reti trofiche. I servizi ecosistemici non si limitano in questo a fornire una serie di importanti benefici alla nostra specie, ma, di fatto, assicurano l'abitabilità stessa del pianeta: senza di essi, in pratica, non potremmo parlare di ambiente a proposito della Terra, poiché non sussisterebbero le condizioni minime per il mantenimento stesso della vita.

La seconda tipologia di ragioni – legata invece al concetto di natura – deve essere ulteriormente divisa in due categorie. La prima fa capo alla nozione di valore intrinseco – ampiamente presente nel dibattito dell'etica ambientale[18], e che agli occhi di molti conservazionisti appare tutt'oggi come l'unico terreno possibile su cui costruire l'impresa ambientalista[19]. La seconda categoria fa capo invece a un insieme di ragioni antropocentriche (al contrario del valore intrinseco) ma non per questo utilitaristiche (come invece i servizi ecosistemici). L'elemento comune a queste ragioni è il loro basarsi su una serie di esperienze significative legate alla natura: esperienze di tipo estetico[20], scientifico[21],esistenziale[22], e trasformativo[23]. Queste esperienze, oltre a permetterci di coltivare alcune delle qualità che ci definiscono originalmente come specie[24], possono istillare in noi anche un senso di rispetto e riverenza per la natura che ci circonda.

Non entreremo qui nel merito di una valutazione complessiva di queste famiglie di ragioni, dando per scontata una certa loro persuasività. Ciò che faremo adesso sarà piuttosto cercare di analizzarle alla luce della domanda precedente: quale concetto è sensato considerare al centro dell'etica ambientale? L'ambiente, la natura, o gli ambienti naturali?

3. Un ambiente senza la natura?

Analizzando dapprima la famiglia di ragioni derivata dai servizi, si può giungere facilmente alla conclusione che, a partire da essa, non è possibile giustificare in senso pieno e autentico la conservazione degli ambienti naturali e degli organismi che ne fanno parte. Potrebbe sembrare un paradosso: non sono forse queste ragioni di matrice principalmente ecologica? Com'è possibile che non permettano di articolare in maniera solida una difesa degli ambienti naturali?

Il problema, però, è reale, e dipende dalla logica stessa di questo tipo di ragioni, che assegna valore a determinati servizi (ecologici, economici, ricreativi), ma non al sistema che li fornisce. È così del tutto indifferente – a parità di offerta – l'identità “naturale” o “artificiale” del fornitore. Un sistema artificiale, anzi, sarebbe da preferire a uno naturale in caso di una quantità e qualità dei servizi più elevata.

Questo ragionamento potrebbe essere nella pratica scardinato se ci fossero delle ragioni per concludere che la “naturalezza” è una proprietà essenziale per avere dei servizi ecologici, economici o ricreativi ottimali. Ma queste ragioni non sussistono. Se riflettiamo anzi sulle modalità con cui interveniamo sugli ambienti naturali, possiamo facilmente concludere che in molti casi si tratta di “correzioni” volte a migliorare un servizio o a eliminare un disservizio fornitoci “naturalmente”[25]. Già adesso e in passato, quindi, per motivi di efficienza si è andati a modificare una parte dell'ambiente circostante senza tenere conto dell'elemento “naturale” che andava così perduto.

L'unica ragione per cui questo genere di interventi non assume un carattere generalizzato e strutturale – al di là della nostra volontà – è, nei fatti, di natura epistemica e tecnica. Non disponiamo di abbastanza conoscenza e mezzi per riconfigurare l'intero sistema di supporto vitale del nostro pianeta, o per rendere ancora più efficienti gli altri servizi che al momento sono forniti dagli ambienti naturali. Ma non c'è motivo per cui questa situazione non possa cambiare nel futuro.

Sembra anzi essere questo l'esito coerente che deriva dal prendere sul serio l'imperativo legato a queste ragioni: quello di giungere a uno stato delle cose che potremmo definire transnaturale, in analogia con il “transumano”. In questo stato di cose, gli ambienti naturali saranno diventati obsoleti rispetto ai più efficienti ambienti artificiali, e gli stessi argomenti ecologici, economici e ricreativi che oggi ci spingono a proteggerli – perché non abbiamo valide alternative riguardo alla fornitura di determinati servizi essenziali – giustificheranno la loro totale sostituzione[26]. Ciò non dovrà avvenire necessariamente rimpiazzando ogni elemento organico con un analogo – ma migliorato – elemento inorganico. Il processo di “enhancement” ambientale, e la sua contemporanea denaturalizzazione, potrà avvenire anche semplicemente “riprogrammando” l'esistente elemento organico del pianeta, come proposto – e promesso – per esempio dalla contemporanea biologia sintetica[27].

In questo modo, il genere di ambientalismo ottenuto a partire da considerazioni esclusivamente legate ai servizi può essere definito un ambientalismo senza natura. La natura, infatti, non costituisce un elemento necessario per la valorizzazione (intendendo quest'espressione nel suo duplice significato di “dare valore a” e “migliorare”) dell'ambiente: anzi, laddove non risulti essere addirittura un ostacolo a questo compito, lo svolge comunque in maniera sub-ottimale.

Del resto, in quale modo la “naturalezza” potrebbe essere una qualità determinante per giudicare quale, tra due ambienti, sia migliore dal punto di vista dei servizi offerti? Gran parte degli argomenti di questo tipo cade in quella che Bernard Rollin ha definito la “sindrome di Frankenstein”[28], l'idea, ovvero, che la natura possa offrire un limite normativo di qualche tipo cui adeguarsi. Quest'idea, sebbene abbia ancora una presa sul senso comune sotto forma di euristica del giudizio morale[29], è, dal punto di vista filosofico, largamente screditata.

In misura analoga, Steven Vogel ha negli ultimi anni proposto un argomento che pare mostrare in maniera chiara come l'attribuzione di valore alla naturalezza di un ambiente che tendiamo a dare anche quando valutiamo quest'ambiente in quanto ambiente sia frutto di un fraintendimento[30]. Supponiamo di costruire nel nostro linguaggio concetti che svolgano la stessa funzione svolta da “natura” in quanto contrario di “artificiale”, ma che si applichino invece che agli esseri umani ai castori e ai gamberetti. In questo senso, nei luoghi dove un castoro costruisce la sua diga, o un gamberetto nuota, la “castura” e la “gambura” tendono a venire meno. È un problema, si chiede Vogel?

Difficile sostenerlo. E anche se castori e gamberetti diventassero così numerosi da minacciare la tenuta ecologica del luogo, la nostra preoccupazione non sarà certo nei confronti della “castura” e della “gambura”, nonostante queste siano sempre più compromesse: sarà piuttosto verso l'ambiente – lo spazio vitale comune che, se fosse distrutto, non garantirebbe più la nostra sopravvivenza.

4. Una natura senza l'ambiente?

Non è quindi lecito chiedersi se le nostre preoccupazioni ambientaliste debbano escludere ogni timore riguardo alle sorti della natura?

La naturalezza, in realtà, potrà anche non essere una qualità essenziale per definire un “buon” ambiente, e non avere quindi un ruolo effettivo in una fondazione dell'ambientalismo basata sui servizi ecologici, economici e ricreativi, tuttavia essa, come si è accennato in precedenza, riveste un ruolo essenziale per altre due famiglie di ragioni: quelle che fanno capo al valore intrinseco, e quella che fanno capo alle esperienze significative che la nostra specie può compiere di fronte alla natura.

Cominciamo dal valore intrinseco. Uno degli argomenti più conosciuto per l'attribuzione di questo tipo di valore agli enti naturali è quello dell'ultimo essere umano formulato, alle sorgenti dell'etica ambientale, da Richard Routley/Sylvan[31]. Immaginiamo che, per qualche ragione, sul pianeta sia rimasto soltanto un essere umano. Immaginiamo adesso che questa persona cominci a distruggere l'ambiente naturale che lo circonda senza una ragione apparente. Non sta nuocendo – direttamente o indirettamente – ad altre persone: ma l'intuizione – secondo Routley/Sylvan – è che le sue azioni siano nondimeno sbagliate. L'ambiente naturale deve avere quindi un valore indipendente da noi, ovvero intrinseco.

Non c'interessa qui giudicare la bontà o meno di questo argomento, quanto di discuterne le applicazioni. L'intuizione che, secondo Routley/Sylvan, accompagna la situazione immaginaria, è che il male compiuto dall'ultimo essere umano sulla Terra non sia rivolto contro qualcuno – inteso come una persona. A preoccuparci, quindi, non è la distruzione di un ambiente, altrimenti l'intuizione sarebbe che l'ultimo essere umano sta danneggiando un'altra persona o al limite se stesso. Ciò che ci preoccupa, invece, è la distruzione della natura: e solo di essa.

Questa conclusione può essere rafforzata immaginando situazioni analoghe a quelle descritte nell'argomento ma riguardanti non più la Terra, bensì parti della natura che non sono ambienti. Se l'ultimo essere umano, per esempio, disponesse di un arsenale fantascientifico in grado di distruggere la Luna o Marte, e decidesse di adoperarlo a questi scopi, crediamo che la reazione, per la maggior parte delle persone, sarebbe identica a quello dello scenario originario: le sue azioni sembrano sbagliate, nonostante non vi sia qualcuno che subisce un torto[32]. Dal punto di vista del valore intrinseco, quindi, la natura svolge un ruolo essenziale, mentre l'ambiente è inessenziale – esattamente l'opposto di quanto avviene dal punto di vista dei servizi.

Ancora diverso è il caso dell'ultima famiglia di ragioni rimasta da analizzare, quella fondata sulle esperienze significative legate alla natura. Queste esperienze, nella loro diversità, sono accomunate da un carattere disinteressato: non è un'utilità di qualche tipo a costituire il loro valore. Come tale, quindi, esse possono scaturire anche dall'incontro con luoghi della natura che non sono ambienti, e per questa ragione si potrebbe essere tentati di trarre le medesime conseguenze che si sono tratte in precedenza a proposito del valore intrinseco. Le cose, però, non sembrano stare proprio così.

Se è pur vero, infatti, che possono darsi esperienze significative anche dall'incontro con una natura che non è, allo stesso tempo, ambiente, è altrettanto vero che queste esperienze costituiscono un insieme piuttosto limitato se confrontato con quello delle esperienze che è possibile compiere invece all'interno degli ambienti naturali. Ciò accade perché la naturalezza degli ambienti naturali ha delle qualità peculiari che la differenziano – ai fini di queste esperienze – dalla naturalezza dei luoghi che non sono ambienti. Anzitutto, essa è solitamente più accessibile (trovarsi nella condizione di ammirare l'Everest, per esempio, è più facile che trovarsi nella condizione di ammirare il marziano Olympus Mons). Secondariamente, essa aggiunge un livello di varietà, complessità e ricchezza che è assente nei luoghi della natura che non sono anche ambienti (ci riferiamo a tutta la natura organica con i suoi processi e le interazioni). Infine, è forse più facile connettersi a essa (perché “risuona” col nostro bagaglio evolutivo).

Se le cose stanno così, è possibile assegnare un valore non meramente accidentale agli ambienti naturali. Nel caso del valore assegnato dalle esperienze significative, infatti, sebbene questo sia derivato da quello attribuito più generalmente alla natura, la naturalezza di un ambiente è comunque valutata positivamente perché naturalezza di un ambiente, e non semplicemente per ragioni contingenti, come accade invece per le ragioni legate ai servizi (che valutano positivamente l'ambiente ma non la sua naturalezza), e per il valore intrinseco (che valuta positivamente la naturalezza, ma non il suo essere di un ambiente)[33].

Rimane a questo punto un'ultima questione da definire: che cosa significa per un ambiente “essere naturale”?

5. Autenticità, alterità, naturalezza

Come si è accennato in precedenza, uno dei caratteri che accomuna tutte quelle che abbiamo chiamato esperienze significative legate alla natura è il disinteresse: la libertà, ovvero, dalla dimensione utilitaristica. A fianco di questo, un altro carattere comune è l'autenticità. Come già notava Kant a proposito dell'esperienza estetica, c'è un aspetto qualitativamente diverso nel nostro apprezzamento del bello naturale che non si ritrova laddove la nostra mano provi a copiare la natura[34]. Lo stesso vale per tutte le esperienze significative elencate in precedenza: richiedono il contatto con una natura autentica, e non con un suo surrogato.

La ragione che può spiegare il perché di questi due requisiti – disinteresse e autenticità – risiede forse nella ricerca di alterità. Di un'alterità genuina: dai nostri progetti, intenzioni, desideri, e, in ultima istanza, dal nostro controllo. Un'alterità che possiamo ritrovare soltanto nella natura.

Ma perché avremmo bisogno di confrontarci con un'alterità di questo tipo? Come specie, una delle caratteristiche che ci definisce forse più nel profondo è la nostra preoccupazione di progettare continuamente nuovi modi per modellare l'ambiente che occupiamo, con l'obiettivo implicito di controllarlo in modo sempre più efficiente. Questa è probabilmente una conseguenza della nostra dotazione etologica di primati altamente intelligenti e che, per la maggior parte della propria storia evolutiva, sono stati prede molto più che predatori. Per questa ragione, abbiamo dovuto sviluppare qualità e istinti che ci hanno fatto diventare gli ingegneri ecosistemici più potenti e ambiziosi che il mondo naturale abbia mai conosciuto. Ma nonostante questo – o forse proprio a causa di ciò – resiste in noi, o almeno in una parte di noi, il desiderio di incontrare, anche solo sporadicamente, realtà che non siano modellate secondo le nostre esigenze[35].

Quale che sia però la spiegazione per questo bisogno di alterità, si potrebbe obiettare che essa – e quindi anche le esperienze che vi associamo – ci è preclusa. Secondo una prima versione di questo argomento, l'impronta antropica che ci accompagna dovunque ci muoviamo è tale che, come per la morte nell'analisi epicurea, la naturalezza, in quanto genuina alterità, non esiste dove esistiamo noi[36]; secondo una seconda versione dell'argomento, invece, la naturalezza ha cessato oramai di esistere, perché irrimediabilmente compromessa dalla nostra impronta[37]. In ognuno dei due casi non possono darsi esperienze realmente significative di fronte alla natura: queste, infatti, sarebbero solo inganni.

L'argomento dell'impronta antropica ci spinge ad abbandonare il concetto di natura e di ambiente naturale come possibili fondamenti per un'etica ambientale. L'ambientalismo senza natura dei servizi ecologici, economici e ricreativi è quindi l'unica opzione disponibile?

La visione transnaturalista ha sicuramente i suoi pregi. Esistono poche obiezioni etiche che si possono avanzare, per esempio, nei confronti degli interventi in natura volti a rimuovere gli agenti eziologici e i vettori di malattie. In molti casi, l'ottimizzazione dell'ambiente, anche se viene a scapito della sua naturalezza, ha una chiara giustificazione morale. In altri, però, il progetto transnaturalista, oltre a essere una chiara manifestazione di hybris antropocentrica, finisce per violare gli interessi di coloro che vorrebbero conservare un rapporto più autentico con la dimensione naturale, e ne vedono inesorabilmente sparire i presupposti. Ma se questo rapporto non può darsi, che problema potrebbe mai esserci in questo?

In realtà, l'argomento dell'impronta antropica è meno persuasivo di quello che sembra essere di primo acchito, e le sue pretese vanno pertanto ridimensionate. Per esempio, nella sua formulazione non si distinguono le varie modalità attraverso cui si può articolare l'intervento umano sulla natura. Da questo punto di vista, è quanto meno semplicistico pensare che una passeggiata nei boschi possa avere lo stesso effetto “snaturante” di un bulldozer nella foresta equatoriale. L'argomento, inoltre, tratta la naturalezza come una proprietà semplice che scompare non appena un singolo elemento “artificiale” arrivi ad inquinarla. Ma si tratta questa di una visione nuovamente semplicistica. Non c'è niente di strano nel considerare una coltivazione biologica “maggiormente naturale” di una coltivazione che impieghi invece fertilizzanti chimici, ed entrambe “meno naturali” di un bosco. La possibilità di compiere simili paragoni significa che la naturalezza è una proprietà che si può trovare in diversi gradi e misure nelle cose.

Che la naturalezza si comporti come una grandezza può sembrare strano visto il legame, tracciato in precedenza, con l'autenticità, che sembra invece non ammettere gradualità. Pure, l'autenticità, come si è detto, è funzione dell'alterità della natura nei nostri confronti, della sua spontaneità ed estraneità al nostro controllo. Queste ultime caratteristiche possono manifestarsi in diversi gradi, e ciò significa che anche l'autenticità che esprimono si troverà collocata lungo uno spettro. Da questo punto di vista, è probabilmente una questione stipulativa decidere il punto di discrimine: ma si tratta questa di una caratteristica comune a tutti i concetti che possono essere “stesi” in diverse sfumature.

6. Conclusioni

Una delle conclusioni che è possibile trarre è che si può costruire un'etica ambientale a partire da tutti e tre i concetti esaminati – natura, ambiente, e ambienti naturali. Si tratta di etiche ambientali tra loro molto diverse, e, anche per questa ragione, non è possibile rispondere qui alla domanda riguardo a quale delle tre sia da preferire. Ci sembra però plausibile affermare che l'etica ambientale fondata sugli ambienti naturali sia probabilmente più centrata riguardo agli obiettivi e alle aspirazioni solitamente associati a un'etica di questo tipo, sebbene i suoi contorni concettuali siano forse un po' più vaghi di quelli offerti dalle alternative basate sull'ambiente e sulla natura.

Di là di questo, merita una particolare menzione una sua caratteristica interessante: il pragmatismo. Molte posizioni all'interno del campo conservazionista considerano con estremo sospetto tentativi di ricostruire gli ambienti naturali andati perduti (il cosiddetto ecosystem restoration[38]), o l'impiego di metodologie “artificiali”, come possono essere le tecniche di riproduzione assistita più avanzate, o addirittura la biologia sintetica, per preservare la biodiversità. Le giustificazioni addotte a riguardo sono molteplici, ma spesso hanno a che vedere con l'idea, espressa anche nell'argomento del tocco antropico, che la naturalezza sia una proprietà fragile, condannata a scomparire non appena sia sporcata dall'intervento umano. Da questo punto di vista, l'idea che invece la naturalezza sia un fattore scalare, sebbene possa rivelarsi talvolta un'arma a doppio taglio (perché non è più immediato capire quando essa venga meno, e muoversi quindi in sua difesa prima che accada), è comunque liberatoria, poiché permette di rimuovere tutta una serie di rigide armature che affondano le proprie radici in una visione ancora normativa del naturale. Ma la natura, come si è detto, non consiste in un metro o in un limite che non può essere violato: essa è meglio definita attraverso il suo carattere di spontaneità. E, per quanto paradossale questo fatto possa essere, questa spontaneità, almeno in un certo grado, può essere anche ottenuta come esito di una nostra pianificazione – come quando decidiamo, per esempio, di preservare la naturalezza di un'area trasformandola in un parco naturale. In questo senso, ricostruire o modificare la natura perché essa possa affrontare i marosi che le stanno venendo incontro – marosi che noi stessi abbiamo sollevato – non significa necessariamente distruggerla: non almeno se sapremo proteggerne a sufficienza l'alterità.

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[1] Si vedano, tra gli altri: G. Ceballos, P.R. Ehrlich, P.H. Raven, Vertebrates on the brink as indicators of biological annihilation and the sixth mass extinction, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America» 117 (2020), pp. 13596–13602; G. Ceballos, P.R. Ehrlich, A.D. Barnosky, A. García, R.M. Pringle, T.M. Palmer, Accelerated Modern Human-Induced Species Losses: Entering the Sixth Mass Extinction, «Science Advances» 1 (2015), pp 9–13; S.L. Pimm, C.N., Jenkins, R. Abell, T.M. Brooks, J.L. Gittleman, L.N. Joppa, P.H. Raven, C.M. Roberts, J.O. Sexton, The biodiversity of species and their rates of extinction, distribution, and protection, «Science» 344-6187 (2014), p. 1246752. [2] Sull'argomento si può vedere, tra gli altri: G. Ceballos, P. R. Ehrlich, R. Dirzo, Biological annihilation via the ongoing sixth mass extinction signaled by vertebrate population losses and declines, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», 114 (2017), pp. E6089–E6096; C.A. Hallmann, M., Sorg, E. Jongejans, H. Siepel, N. Hofland, H. Schwan, W. Stenmans, A. Müller, H. Sumser, T. Hörren, D. Goulson, H. de Kroon, More than 75 percent decline over 27 years in total flying insect biomass in protected areas, «PLoS ONE» 12-10 (2017), p. e0185809; R. Dirzo, H.S. Young, M. Galetti, G. Ceballos, N.J.B. Isaac, B. Collen, Defaunation in the Anthropocene, «Science» 345-6195 (2014), pp. 401-406. [3] Y.M. Bar-On, R. Phillips, R. Milo, The biomass distribution on Earth, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 115-25 (2018), pp. 6506-6511. [4] In questo lavoro adopereremo una definizione generale di biodiversità come “diversità della vita in tutte le sue forme”, senza addentrarci nelle complesse questioni teoretiche che circondano questo concetto, piuttosto refrattario a ogni specificazione esatta. Per una discussione su questo tema si rimanda a: M. Oksanen & J. Pietarinen, Philosophy and Biodiversity, Cambridge University Press, Cambridge 2004; S. Sarkar,Biodiversity and Environmental Philosophy. An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge 2005; J. MacLaurin & K. Sterelny,What is Biodiversity?, University of Chicago Press, Chicago 2008. [5] Il concetto di geodiversità – formulato sull’onda del successo avuto da quello di biodiversità – è adoperato per indicare la differenza e la varietà delle componenti abiotiche del nostro pianeta. Per una inquadratura si veda, per esempio, M. Gray, Geodiversity: Valuing and Conserving Abiotic Nature, John Wiley & Sons, Chichester 2004. [6] Per “conservazione della biodiversità” intendiamo tutte quelle attività scientificamente fondate che coinvolgono la gestione degli ecosistemi, della fauna e della flora selvatica, dei processi biotici, e, in ultima istanza, della stessa biosfera, il cui fine sia il mantenimento, e, eventualmente, anche il ripristino della diversità naturale della vita sul nostro pianeta a tutti i livelli biologici: dai geni fino agli ecosistemi. [7] A riguardo, ci si permetta il rimando ad alcuni nostri articoli volti a definire alcune delle questioni relative a queste domande: P. Biasetti & B. de Mori, A Framework of Values: Reasons for Conserving Biodiversity and Natural Environments, «Etica & Politica/Ethics & Politics» 18 (2016), pp. 527–545; P. Biasetti & B. de Mori, La conservazione della biodiversità: problemi etici e concettuali, «Bioetica» 27 (2019), pp. 59–77; P. Biasetti & B. de Mori, Towards a Conservation Ethics (in revisione). [8] Un inquadramento storico è fornito da S. Bartolommei, L'etica ambientale come nuova frontiera del pensiero morale contemporaneo, in Manuale di etica ambientale, P. Donatelli (cur.), Le Lettere, Firenze 2012, pp. 11-46. [9] A questo proposito si può vedere, per esempio, B.A. Minteer & J.P. Collins, From environmental to ecological ethics: Toward a practical ethics for ecologists and conservationists, «Science and Engineering Ethics» 14 (2008), pp. 483–501, oltre al già menzionato S. Bartolommei,L'etica ambientale come nuova frontiera del pensiero morale contemporaneo, op. cit. [10] È nostro avviso, a proposito, che la ricerca portata avanti dall'etica ambientale “tradizionale” sia in grado di fornire un contributo limitato a un'eventuale risposta alla domanda sul “come” conservare. Le pratiche di conservazione, per la loro stessa natura, sollevano numerosi conflitti tra esigenze provenienti da diverse dimensioni valoriali: quella ambientale, certamente, ma anche quella sociale e quella animale. Una “etica della conservazione”, pertanto, considerata come una riflessione sui problemi morali che nascono dalla pratica effettiva della conservazione, deve incorporare entro di sé elementi provenienti non solo dall'etica ambientale, ma anche da quella umana e animale. Sull'argomento ci si permette di rimandare a P. Biasetti & B. de Mori, Le matrici etiche nella conservazione della biodiversità, «Etica & Politica/Ethics & Politics», 21 (2019), pp. 233–254. [11] Secondo il vocabolario online Treccani la parola “ambiente” deriva «dal latino ambiens -entis, participio presente di ambire “andare intorno, circondare”, in origine usato come aggettivo riferito all’aria o ad altro fluido» (www.treccani.it/vocabolario/ambiente/ – consultato il 10/09/2020). Anche l'inglese environment ha un significato originario simile, derivando dall'antico francese environner – ovvero circondare. [12] J.S. Mill, Nature, in The Collected Works of John Stuart Mill, Volume X - Essays on Ethics, Religion, and Society, ed. John M. Robson, Introduction by F.E.L. Priestley, Routledge and Kegan Paul, London 1985, pp. 373-402. [13] Ivi, 374 [trad. nostra]. [14] Ivi, 375 [trad. nostra]. [15] Lasciamo fuori da questa lista svariate altre possibili “fondazioni”, poiché ci porterebbero lontano dalla nostra analisi incentrata sui concetti di natura e ambiente – inserire nel discorso la prospettiva biocentrica, per esempio, richiederebbe di analizzare anche il concetto di vita, e così via. [16] Per una panoramica su servizi legati agli ecosistemi si può vedere, tra gli altri: G.D. Daily (ed.), Nature’s Services. Societal Dependence on Natural Ecosystem, Island Press, Washington DC 1997; Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and Human Well-being: Synthesis,Island Press, Washington DC 2005. [17] Nella trattazione classica dei servizi ecosistemici sono inclusi in questa categoria anche i valori estetici e spirituali, che noi invece trattiamo successivamente per ragioni legate alla particolare tassonomia che qui proponiamo: i valori estetici e spirituali, infatti, più che agli ambienti veri e propri sono legati, a nostro avviso, al concetto di natura. [18] La letteratura sul valore intrinseco in etica ambientale è proprio per questo piuttosto vasta. Per orientarsi nelle differenti declinazioni di questo concetto si possono consultare J. O'Neill, The Varieties of Intrinsic Value, «The Monist» 75-2 1992 e C. Batavia, M.P. Nelson, For Goodness Sake! What Is Intrinsic Value and Why Should We Care? «Biological Conservation» 209 (2017), pp. 366–376. [19] Sul concetto di valore intrinseco si basa per esempio tutto il filone “tradizionale” della conservazione basato sulla disciplina della conservation biology: si vedano a proposito i “postulati normativi” contenuti in M.E. Soulé, What is Conservation Biology?, «Bioscience» 35 (1985), pp. 727–734. [20] Sul valore estetico della natura – l'idea della natura come “museo” da preservare per noi stessi e le generazioni future – si può vedere, per esempio: A. Carter, Biodiversity and All That Jazz, «Philosophy and Phenomenological Research» 80 (2010), pp. 58–75; E. Brady, Aesthetics in Practice: Aesthetic Value and the Natural World, «Environmental Value» 15 (2005), pp. 277–291; H. Rolston III, From Beauty to Duty: Aesthetics of Nature and Environmental Ethics, in Environment and the Art: Perspectives on Environmental Aesthetics, A. Berleant, A. (ed.), Aldershot, Hampshire 2002, pp. 127–141; P. Biasetti, From Beauty to Love: A Kantian Way to Environmental Moral Theory?, «Environmental Philosophy» 12 (2015), pp. 139–160. [21] Oltre a essere una fonte di bellezza, la natura è anche un luogo capace di stimolare la nostra curiosità: una descrizione della natura come “laboratorio” perenne, dove coltivare il lato contemplativo della nostra personalità, è presente fin dagli esordi dell'etica ambientale – si veda, per esempio, H Rolston III, Values in Nature, «Environmental Ethics» 3 (1981), pp. 113–128; W. Godfrey-Smith, The Value of Wilderness, «Environmental Ethics» 1 (1979), pp. 309–319 – ma non è stata esplorata quanto è stato fatto invece per il valore estetico. [22] Questo genere di argomenti cerca di rendere conto di tutta un'altra serie di esperienze – oltre a quelle legate alla curiosità scientifica e dall'ammirazione estetica – che possono essere provocate dalla contemplazione della natura: riverenza, meraviglia, rispetto. In questo senso, la natura è stata spesso paragonata a una “cattedrale”. [23] Con valore trasformativo s'intende la capacità della natura di provocare esperienze così vivide e importanti da segnare in qualche modo la vita di una persona. Una prima descrizione di questo tipo di valore si trova in B.G. Norton, Toward Unity Among Environmentalists, Oxford University Press, New York 1991. [24] Lasciamo aperta la questione se questo “interesse” che possiamo provare per la natura sulla base delle possibilità offerte da queste genere di esperienze sia da intendersi come un ordine oggettivo appartenente alle cose – secondo quindi un modo di vedere che potremmo definire “neoaristotelico” – oppure no. Sulla questione è preziosa la riflessione operata in P. Donatelli, L'ambiente e lo sfondo della vita umana, in Manuale di etica ambientale, Le Lettere, Firenze 2012, pp. 47-84. [25] Sulla necessità di tenere conto anche dei “disservizi” prodotti dagli ecosistemi ha insistito D.S. Maier, What’s So Good about Biodiversity? A Call for Better Reasoning About Nature’s Value, Springer, Dordrecht 2010. [26] È interessante a questo proposito notare come uno dei pionieri delle ragioni ecologiche per la protezione dell'ambiente, l'economista statunitense Kenneth Boulding (cfr. K. Boulding, The Economics of the Coming Spaceship Earth, in H. Jarret (ed.), Environmental Quality in a Growing Economy, John Hopkins University Press, Baltimore 1966), avesse costruito il proprio argomento attorno a una metafora – quella della “navicella spaziale Terra” – che già nell'immaginario evocato lasciava pensare a una ibridazione tra elementi artificiali (la navicella spaziale) e naturali (la Terra), ponendoli quindi sullo stesso piano, come se non vi fossero tra essi differenze sostanziali. [27] Per una visione di questo tipo si veda G. Church & E. Regis, Regenesis. How Synthetic Biology Will Reinvent Nature and Ourselves, Basic Books, New York 2012. [28] B. Rollin, The Frankenstein Syndrome. Ethical and Social Issues in the Genetic Engineering of Animals, Cambridge University Press, New York 1995. [29] Sull argomento vedi: C.R. Sunstein, Moral heuristics, «Behavioral and Brain Science» 28 (2005), pp. 531–542. [30] S. Vogel, Thinking like a Mall. Environmental Philosophy after the End of Nature, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2015, p. 15. [31] R. Routley/Sylvan, Is There a Need for a New, an Environmental, Ethic?, in Proceedings of the XVth World Congress of Philosophy. Sofia Press, Varna 1973, p 207. Un'analisi ulteriore dell'argomento è stata compiuta in M. Peterson & P. Sandin, The Last Man Argument Revisited, «Journal of Value Inquiry» 47 (2013), pp. 121–133. [32] Dal punto di vista del valore intrinseco la stessa creazione di ambienti “naturali” può essere vista in maniera problematica laddove vada a interferire con la natura preesistente. Per esempio, le principali obiezioni mosse ai progetti di “terraforming” di altri pianeti provengono da fautori del valore intrinseco della natura: vedi, tra gli altri, K. Lee, Awe and Humility: Intrinsic Value in Nature. Beyond an Earthbound Environmental Ethics, in R. Attfield & A. Belsey (eds.), Philosophy and the Natural Environment, Cambridge University Press, Cambridge, 1994. [33] A questo proposito si potrebbe obiettare che uno stato di affari che comprenda, oltre la natura abiotica, anche la natura biotica abbia più valore intrinseco di uno dove invece è presente soltanto la natura abiotica: che un ambiente naturale, quindi, cogli organismi che lo contengono, abbia più valore intrinseco della superficie di Venere, coi suoi 460° di temperatura media. In questo modo sarebbe possibile affermare che, anche dal punto di vista del valore intrinseco, un ambiente naturale, sebbene indirettamente, abbia un valore non accidentale. Tuttavia, il valore intrinseco è un concetto solitamente inteso come incommensurabile, e non si comprende in che senso potrebbe essere distribuito in gradazioni diverse o comunque confrontato. [34] L'osservazione è esplicitata in questo modo: «Colui che contempla […] la bella figura di un fiore selvaggio […] per ammirarla ed amarla, e non vorrebbe che essa mancasse nella natura, anche se dovesse venirgliene un danno, e ancora meno si promette da essa qualche utilità, costui prende un interesse immediato ed intellettuale alla bellezza della natura. Vale a dire che il prodotto naturale non gli piace soltanto per la sua forma, ma anche per la sua esistenza […]. Qui è notevole questo fatto, che se s’ingannasse segretamente questo amatore del bello, piantando a terra dei fiori artificiali (come se ne possono fare perfettamente simili a quelli della natura) […] e dopo gli si scoprisse l’inganno, sparirebbe subito questo interesse immediato che egli aveva prima» – cfr. I. Kant, Critica del giudizio, A. Gargiulo (trad.), Laterza, Bari 1997 p. 275. [35] Sull'argomento si veda D. Jamieson, Ethics and the Environment, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 162-168. [36] A proposito, già Bernard Williams notava che sebbene l'obiettivo dei conservazionisti sia spesso quello di «preservare una natura che non è controllata, plasmata o voluta da noi», questo non è possibile, in quanto «una natura preservata da noi non è più semplicemente una natura non controllata» – cfr. B. Williams, Must a Concern for the Environment Be Centred on Human Beings?, in Making Sense of Humanity and Other Philosophical Papers, Cambridge: Cambridge University Press, 1995, p. 240. [37] Quest'idea della fine della natura è stata formulata in maniera articolata da B. McKibben, nel suo The End of Nature: Humanity, Climate Change and the Natural World, Bloomsbury, London 1989. [38] Due articoli centrali a proposito sono R. Elliot, Faking Nature, «Inquiry. An Interdisciplinary Journal of Philosophy» 25 (1982), pp. 81–93 e E. Katz, The Big Lie: Human Restoration of Nature, «Research in Philosophy and Technology» 12 (1992).

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