Il blog della SIFM
R. Formisano - NATURA, LIBERTÀ, PROGRESSO. HERDER, KANT E IL PROBLEMA DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA
PANEL NATURA/RELIGIONE/DIRITTO
Come annunciato nel titolo, nel corso di quest’intervento ci soffermeremo sulla famosa polemica che, tra il 1784 ed il 1785, vide contrapporsi le filosofie di Herder e Kant, in ragione dei diversi modi di intendere la relazione tra Natura e Libertà. Inserendoci nel quadro di questo confronto, il tema generale su Etica e Natura sarà dunque affrontato sotto il profilo più specifico della relazione tensiva che segna nel profondo l’ambiguità della specie umana, la quale per un verso appartiene al mondo naturale al pari di tutte le altre specie viventi, ma per un altro verso da queste si distingue in virtù della sua capacità di autodeterminazione, da cui discende il potere di trasformazione del mondo in cui l’umanità opera e agisce. Un’ambiguità che, su più livelli, si riflette in quella che, sin dalla sua nascita in Grecia, la filosofia ha da sempre riconosciuto essere l’elemento distintivo e determinante l’essenza dell’umanità, ossia la sua disposizione alla razionalità; quella disposizione fondamentale in forza della quale l’uomo ha rivendicato e rivendica per sé la possibilità di costruire un mondo “più umano”, non soggetto alle costrizioni imposte dalla realtà esterna, ma fondato su un principio universale di giustizia, retto da leggi fatte dall’uomo per l’uomo.
Che l’autodeterminazione implicasse una qualche forma di “rottura” nei confronti della natura è una questione che, tutt’altro che ignota già nel mondo antico, ha tuttavia non soltanto raggiunto un suo acme nell’epoca attuale, contrassegnata dal dominio della tecnica, ma anche – soprattutto alla luce delle vicende che hanno segnato la storia del XX secolo – una portata tale da rimettere legittimamente in discussione la tradizionale fiducia incondizionata nei confronti della ragione e della sua potenza emancipatrice con cui la modernità ha costruito i propri miti e, non ultima, la sua visione ottimistica della storia. Di questa visione, corroborata dal perfezionamento delle conoscenze scientifiche, l’età moderna trovò nell’Illuminismo la sua l’espressione paradigmatica, la quale tuttavia già nell’ultimo ventennio del XVIII secolo cominciava a diventare oggetto di una profonda revisione. La polemica tra Herder e Kant, a cui qui ci si richiama, si inserisce appunto nel contesto di quest’opera di ripensamento del senso della storia.
La causa occasionale della polemica fu la pubblicazione, nel 1784, delle Idee per la filosofia della storia dell'umanità, dove Herder si propone di offrire il suo contributo per lo sviluppo di una concezione organica della storia del genere umano. Le Idee furono oggetto di una dura recensione da parte di Kant, il quale pubblicò in forma anonima il resoconto della sua lettura delle prime due parti dell’opera herderiana.[1] Herder, ex studente di Kant a Königsberg, non faticò tuttavia a riconoscere, con suo grande rammarico e stupore, nello stile e nei contenuti, l’identità del suo recensore. Le cronache ricordano che, proprio a partire da quel momento, nonostante alcune reticenze iniziali,[2] Herder – sino ad allora grande estimatore del Kant che oggi è uso chiamare “precritico” – non avrebbe mancato occasione di esprimere le sue riserve nei confronti del suo antico maestro, che nel frattempo veniva sempre più affermandosi come il fautore della svolta “critica” del pensiero filosofico occidentale.
Non è tuttavia soffermandoci sugli aspetti cronachistici che la polemica sarà qui affrontata, ma con il solo scopo di fornire una prima cornice alla ricostruzione delle rispettive prospettive teoretiche. Nella prima parte dell’intervento verrà fornita una presentazione generale del pensiero di Herder. La ripresa dei principi cardine della concezione herderiana – dichiaratamente antilluministica – del progresso del genere umano servirà poi per introdurre, attraverso un gioco di contrasti, alcuni aspetti chiave della concezione che, negli stessi anni della polemica con Herder, Kant veniva maturando circa il senso della storia.
Per ragioni espositive, la presentazione delle tesi kantiane si limiterà al saggio del 1784, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. La filosofia kantiana della storia sarà quindi presa in esame per com’essa si presentava prima dell’elaborazione, nella terza Critica, del Giudizio riflettente e delle analisi del giudizio teleologico (le quali fornirono a Kant, come è noto, una base nuova per le successive rielaborazioni che impegnarono, nel corso degli anni Novanta del XVIII secolo, la sua riflessione sulla storia dell’umanità). Il confronto fra le coeve prospettive di Herder e Kant servirà a disegnare, come attraverso un gioco di chiaroscuri, lo spazio comune di una discussione che, in realtà, procede ben al di là della semplice polemica tra i due filosofi, e fornisce elementi utili per un inquadramento generale del problema relativo al rapporto tra Natura e Libertà, con riferimento ad una fase storica in cui le eredità dell’Illuminismo cominciano a diventare oggetto di profonde revisioni.
La concezione herderiana della filosofia della storia
L’idea di una “storia universale della Bildung del mondo”, sorge in Herder ispirandosi, in parte, ai dibattiti seicenteschi suscitati dalle ricerche di Copernico, Keplero, Newton, Huygens, in merito ai processi formativi del sistema solare. Ma è soprattutto grazie alla kantiana Storia universale della natura e teoria del cielo (1755) che in Herder matura l’idea di estendere quanto sino ad allora compiuto dal pensiero filosofico scientifico oltre l’ambito dei soli processi fisici. Affascinato dalla possibilità di poter descrivere l’evoluzione dell’universo limitandosi alle sole «semplici, eterne, perfette leggi della formazione e del movimento dei pianeti»,[3] Herder giunge a porsi la fatidica domanda se ad un simile approccio non sia riconducibile, non solo la formazione della natura organica, ma anche la stessa vita spirituale umana (che, per ciò che attiene la sua origine ed il suo sviluppo, tradizionalmente veniva spiegata attraverso l’immediato ricorso all’azione creatrice di Dio).
L’approccio di Herder non si riduce tuttavia affatto ad una mera trasposizione alla sfera spirituale, dell’impostazione che già la scienza veniva applicando alla natura. La formazione spirituale dell’umanità è un processo che Herder, refrattario a facili riduzionismi, si sforza piuttosto di descrivere nel rispetto della ricchezza di fattori molteplici ed eteronomi che lo animano, senza cedere mai alla facile illusione di poter ricondurre l’intero processo ad un unico principio razionale esplicativo.[4] Emerge qui, in effetti, un aspetto decisivo di quell’anti-Illuminismo che costituisce un tratto cruciale della filosofia herderiana, che rifiuta di interpretare i fenomeni spirituali e il loro divenire, la loro storia, la storia della cultura, a partire da un criterio astratto o da nozione atemporale di Ragione. La specificità dell’approccio herderiano consiste in effetti nel tentativo di costruire una comprensione di questi processi, ricavandola però “dall’interno” del loro movimento costitutivo. Proprio da quest’impostazione discende peraltro la ragione profonda della distanza – come vedremo, incolmabile – di Herder nei confronti del trascendentalismo kantiano:[5] agli occhi di Herder appare infatti inconcepibile e assurda la pretesa della filosofia di poter distinguere in maniera netta l’elemento empirico, spurio, eteroclito che anima la comprensione umana – storicamente determinata – della realtà, dalla forma “pura”, invariabilmente identica a se stessa e universale, del soggetto conoscente.
L’attualità di Herder riluce appunto in questa sua concezione che vede la ragione, così come i principi e le forze che intervengono nello sviluppo delle forme in cui l’umanità esprime se stessa, in quanto sempre storicamente situati. “Calata” nel tempo, la ragione non è mai separabile dalle singole, concrete forme che il linguaggio, in virtù del suo uso, acquista (e perde) nel corso del tempo.[6] Ragione e linguaggio vivono, per Herder, in un rapporto di simbiosi.[7] È peraltro in conformità a questa idea che l’esposizione storica del cammino percorso dal genere umano non si presenta mai, in Herder, alla stregua di una Darstellung scientifica, condotta da un punto di vista “esteriore”, neutrale e senza tempo. L’indicazione, non soltanto metodologica, che Herder ne trae (e che a Hegel[8] e allo storicismo del XIX secolo non passerà inosservata[9]), è l’impossibilità per la filosofia di potersi mai porre da un punto di vista privilegiato e “puro”, cioè astorico, sulla realtà.[10] Il discorso filosofico è al contrario anch’esso sempre storicamente determinato, e come tale deve concepirsi, in quanto sempre situata in un momento determinato della formazione dello spirito, subordinata e coinvolta all’interno del processo di cui pretende di offrirne una descrizione e una comprensione adeguate.
Restio a “misurare” l’evoluzione delle culture umane con il metro di una verità precostituita e di una ragione già formata e compiuta, lo sforzo di Herder è di comprenderne l’“impulso generatore” a partire dalla combinazione, ogni volta unica, di circostanze esteriori, fisiche e sociali, e forze interiori, spirituali e organiche, che hanno dato luogo a tratti ogni volta specifici. Letta coerentemente con il suo metodo, la filosofia herderiana della storia risponde allora all’esigenza di salvaguardare l’ecceità di ciascuna manifestazione spirituale, il valore della sua unicità, intesa come prodotto di quella profonda alchimia che, mescolando insieme forze e tendenze agenti al fondo della natura con gli elementi contingenti dati dal tempo e dallo spazio, e tuttavia pur sempre inerente a quel processo unico e costante che trova nella Bildung der Menschheit il suo centro e il suo punto di convergenza.
La filosofia di Herder si sforza in effetti di tenere insieme due cose distinte: la volontà, da un lato, di garantire a ciascuna cultura il diritto di rivendicare e difendere la propria “individualità”, vale a dire il proprio carattere “nazionale”, ma al tempo stesso anche l’esigenza, dall’altro lato, di non disperdere, dietro la multiforme varietà delle manifestazioni spirituali, la continuità sottesa a questo processo produttivo, che è sì molteplice nei suoi esiti. Arricchimento e crescita si determinano in virtù di quel costante processo di appropriazione che l’umanità esercita sul suo passato, e che include sempre anche un che di poietico, combinazione inscindibile di ricettività e creatività, tradizione e innovazione.[11] Nella loro relazione tensiva, risiede ciò che Herder riconosce essere l’elemento “vitale” del processo antropogeno. E questo è quanto la vita del linguaggio attesta dispiegandosi come “vita” delle diverse lingue dei diversi popoli.
Per inciso: non esiste, in Herder, nessun Favoritvolk. La filosofia herderiana della storia colloca l’essenza dell’umanità nel processo del suo divenire, cioè nel prodursi della trasformazione; egli rinuncia a contemplare il “tutto” della storia ponendola in rapporto a ciò che deve poter essere il suo risultato ultimo (il cui concetto, per Herder, altro non potrebbe essere che una mera astrazione, e quindi una nozione tra trattare con il massimo sospetto). Ciò non toglie, tuttavia, l’esigenza e lo sforzo di fornire una comprensione unitaria di questa produzione poliedrica di forme e del soggetto di questo divenire, che non è l’umanità astrattamente intesa nel senso di una rappresentazione generica, ma il concreto formarsi dell’attività spirituale umana considerata nella fattualità del suo estrinsecarsi nel contesto delle relazioni interne ed esterne che ne determinano lo sviluppo.
Attento soprattutto al momento genetico delle varie forme spirituali,[12] Herder inquadra dunque il problema della storia in una cornice senza dubbio originale, ma non per questo del tutto priva di elementi “tradizionali”. All’idea di uno “sviluppo naturale” dello spirito umano, Herder aveva già lavorato nei decenni precedenti. Nel saggio Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell'umanità (1774), rielabora uno schema interpretativo che egli aveva ripreso da Isaak Iselin (1728-1782), il quale riconduceva la storia dell’umanità alle medesime fasi che scandiscono la vita dell’individuo (età della sensibilità, dell’immaginazione, della ragione). Non solo: parallelamente a questa concezione lineare dello sviluppo naturale dello spirito umano, Herder non esita a far appello all’idea di una “provvidenza”, come di una “forza”[13] che “dirige” la storia, sebbene non agisca mai su di essa in maniera diretta. Il divenire storico è per Herder sì un divenire “aperto”, mai predeterminato, e tuttavia pensato sempre nei limiti di una riorganizzazione delle Anlagen poste ab origine da Dio.
Questo “provvidenzialismo” herderiano è forse il segno più evidente di una concezione teleologica della storia, che si vuole, sì “aperta”, non predeterminata, e tuttavia ancora fondata su una visione teologica dell’universo. Ma altrettanto vero è che l’idea di una progressione “meccanicamente” lineare, in parte ripresa con Iselin, sarà oggetto di numerose revisioni, fino ad essere esplicitamente messa in discussione nell’introduzione alle Idee del 1784, in cui Herder allarga ulteriormente l’orizzonte del proprio discorso,[14] per quanto l’idea di una formazione continua, o meglio di un’autoformazione, che abbia al centro lo sviluppo dell’umanità, attraverso il perfezionamento delle sue capacità razionali ed espressive non venga mai del tutto meno.[15]. Forse perché condizionato dall’intensificarsi dei contatti con Goethe in quegli anni, la questione della evoluzione spirituale umana è ricondotta nel contesto più generale dello sviluppo della natura. Herder si pone alla ricerca di “tracce” che possano in qualche modo fornire attestazioni circa la continuità dei processi formativi, dall’organizzazione della materia inanimata fino al complesso del genere umano.[16]
Attingendo dal vasto campo delle conoscenze scientifiche del suo tempo e selezionando ad arte le informazioni a lui congeniali,[17] Herder costruisce la sua personale visione di un mondo naturale caratterizzato da una “gradazione delle creature”: come se, afferma Herder, la natura «avesse avuto un solo modello, un protoplasma secondo il quale e per il quale tutto ha formato».[18] Ora, è a partire da questo presupposto che Herder giunge ad istituire il principio cardine delle sue analisi, vale a dire l’istituzione di un parallelismo tra le due sfere del divenire: quello spirituale e quello naturale. Come le forme spirituali più semplici e primitive costituiscono le forme “preparatorie”, i primi necessari tentativi di attuazione su cui poggiano le formazioni superiori, così in natura è possibile intravedere la presenza di una sorta di “scala gerarchica” (scil. la cosiddetta “scala naturae”), che dal mondo inanimato si eleva sino a quello animale, e poi umana. E in questa scala, la formazione dell’uomo, che rappresenta certamente la vetta più alta, può essere a sua volta inquadrato come una formazione-soglia, la base per formazioni future e ulteriori sviluppi (sebbene in condizioni per noi ora inaccessibili e immaginabili). Herder suggerisce, ad esempio, la possibilità di pensare l’attuale condizione umana come uno stadio “intermedio” che, per un verso si presenta come il prodotto di una storia naturale, ma per un altro verso, in virtù della libera attività umana, appare come una “condizione preparatoria” se considerata in vista delle potenziali nuove forme spirituali che da essa potranno un giorno scaturire. Entro questa prospettiva, l’umanità odierna apparirebbe allora alla stregua di una crisalide: come qualcosa il cui sviluppo porterà alla formazione di una realtà spirituale completamente diversa. E come dalla crisalide risulta difficile poter immaginare la farfalla che verrà, allo stesso modo l’umanità potrebbe esser destinata a forme di sviluppo impensate, oggi difficili anche solo da immaginare, e tuttavia concrete nella loro potenzialità.
Kant lettore critico di Herder
Nel 1785, Kant pubblica anonima la sua recensione alle prime due parti delle Idee di Herder.[19] Pur elogiando (non senza un certo qual sarcasmo) l’intelligenza del suo antico discepolo, Kant non maschera le sue riserve, in particolare per quel che concerne il metodo dell’indagine. A Herder, è innanzitutto rimproverata un’«ardita forza immaginativa»,[20] a cui corrisponde la mancanza di rigore nell’argomentazione, nonché un uso troppo “fantasioso” dell’analogia:
Quello che per lui [scil. Herder] è la filosofia della storia dell’umanità può avere un significato affatto diverso da quello che comunemente con questo nome si intende: non cioè una precisione logica nella determinazione dei concetti o una scrupolosa distinzione e dimostrazione dei principi, ma un rapido sguardo d’insieme, una pronta sagacia nello scoprire analogie e nell’uso di esse un’ardita forza immaginativa congiunta con l’abilità di cogliere il suo oggetto, mantenuto sempre in una oscura lontananza, attraverso sentimenti e sensazioni che […] fanno presumere di sé più di quanto certo una fredda valutazione vi troverebbe.[21]
Lo stesso Kant riporta nella sua recensione la suggestione herderiana del parallelismo dell’umanità con la crisalide. La reazione di Kant, al riguardo, è però durissima: il paragone fra l’uomo e la crisalide rappresenta per lui una “cattiva” analogia, o meglio un cattivo uso dell’analogia. Considerando l’umanità attuale come esito di un processo formativo (Bildung) unitario operato da “forze invisibili” che hanno presieduto alla produzione dei diversi gradi di organizzazione di cui si compone la natura, Herder si spinge ad ipotizzare sviluppi ulteriori, che egli intende come forme più perfette di umanità. Ma, per Kant, proprio qui si annida l’errore: tenuto conto delle premesse che Herder pone, poiché si parla del passaggio da una forma naturale di organizzazione interna ad un’altra di altro genere (dal mondo inanimato a quello animale, e da questo a quello umano ecc.), per quanto operato da forze in se stesse identiche, l’analogia dovrebbe condurre all’ipotesi che, se formazioni ulteriori rispetto a quella umana sono ancora possibili, si tratterà di formazioni che spingono il processo oltre l’ambito dell’umano: «Da una siffatta analogia – scrive Kant – si potrebbe solo conchiudere che in qualche altro luogo, forse in qualche altro pianeta, vi sono esseri che occupano rispetto all’uomo un gradino più alto nell’organizzazione».[22] A rigor di termini, ciò che l’analogia attesterebbe non è tanto il perfezionamento dell’umanità, quanto piuttosto il suo superamento attraverso il formarsi di un’altra configurazione, una combinazione differente di elementi e forze non soltanto distinta dalla nostra attuale ma, presumibilmente, anche più perfetta. D’altra parte, Herder stesso ammette che le forze spirituali che agiscono al fondo della natura acquistano il carattere umano soltanto ad un certo punto e ad un certo livello della loro formazione. Ebbene, sono queste forze spirituali, e non il loro configurarsi in forma umana, a garantire la continuità nella Bildung del mondo. Tali forze funzionano, nel contesto dell’analogia, rispetto all’umanità, come l’anima rispetto al corpo di un individuo. In effetti, sottolinea Kant, ciò che l’analogia suggerisce, se si intende rettamente l’immagine del passaggio da una forma esistente di vita ad una di genere completamente diverso, è piuttosto un’esemplificazione sensibile dell’idea metafisica dell’anima: un’essenza che presiede alla formazione del corpo umano, e tuttavia sopravvive alla dissoluzione di quest’ultimo (la cui corruzione individua peraltro un processo di “purificazione”, e dunque di perfezionamento). Ciò che comunque in questa progressione verrebbe conservato non è, come vorrebbe Herder, l’individualità dello spirito, che da una forma particolare passa ad una nuova, ma soltanto l’essenza di questo spirito: un’essenza mondata da tutto quanto nella sua purezza non le appartiene. Secondo Kant, l’analogia di Herder manca il suo obiettivo in quanto, per dimostrarsi pertinente, essa dovrebbe far riferimento a casi specifici in cui la natura abbia consentito l’effettiva rinascita dello stesso individuo il quale, dopo la morte e la dissoluzione della sua configurazione originale, pur accedendo ad una configurazione ulteriore, sia in grado di mantenere intatta la sua identità. Solo a questa condizione, e sulla base di un simile esempio, supponendo che gli sviluppi successivi della Bildung del mondo dia luogo a configurazioni oggi neppure lontanamente immaginabili, ci si troverà comunque in presenza di forme superiori pur sempre “umane”. Si potrà, cioè, solo allora esprimere la certezza che qualunque sarà la configurazione effettiva che scaturirà dallo sviluppo a venire, esso apparterrà comunque al genere umano, quale perfezionamento di se stesso, oltre che della natura in generale.
Sennonché, nota Kant, un simile esempio in natura non esiste.[23] Ciò che la natura attesta è sempre e solo la conservazione della specie, ma mai del singolo individuo. Il massimo a cui la riflessione di Herder può pertanto aspirare è l’attestazione dell’unità dell’intero processo, ma soltanto in quanto naturale, in virtù delle forze spirituali poste al suo fondo e della continuità di queste. Ricondotta al suo esito ultimo, l’impostazione herderiana mostra il suo grave difetto che, in ultima istanza, consiste nella naturalizzazione dello spirito, vale a dire – al di là delle suggestioni dei parallelismi offerti da Herder – l’assimilazione della sfera spirituale in quella naturale. La naturalizzazione dell’attività spirituale umana non è tuttavia sufficiente per fare dell’umanità e del suo autoperfezionamento la destinazione ultima di questa stessa processualità. In questa prospettiva, il carattere “intermedio” della forma di vita umana suggerisce, semmai, il contrario, ovvero che l’umanità sia piuttosto da intendersi alla stregua di un “passaggio” in vista di altro, un livello ulteriore di configurazione ancora di là da venire. Parlare di una Bildung dell’umanità, in questa cornice, non avrebbe però più alcun senso, in quanto a quel punto lo scopo del processo formativo si risolverebbe nella negazione dell’umano, in vista di una sua trasfigurazione extra-umana, o comunque non-più-umana. Ma poiché il senso del discorso ha il suo centro esattamente sulla possibilità di pensare l’umanità come destinazione ultima del divenire della storia, appare chiaro allora che, nella prospettiva di Kant, sia necessario fornire alla riflessione tutt’altro inquadramento e impostazione.
L’impostazione kantiana al problema filosofico della storia
Il 1784, anno di pubblicazione della prima parte delle Idee di Herder, è lo stesso anno in cui anche Kant dà alle stampe il suo primo saggio interamente dedicato al problema della storia, l’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico.[24] Lo sforzo di Kant in questo testo è di conciliare, nei limiti del possibile, l’idea di una teleologia immanente alla natura con i risultati della prima edizione della Critica della ragion pura, del 1781.[25]
A differenza di Herder, Kant non rinuncia alla concezione ottimistica e lineare della storia ereditata dall’Aufklärung. Egli procede piuttosto in una revisione dei suoi presupposti, a fronte della necessità di “saggiare” le possibilità d’uso della rappresentazione della storia come di una totalità ordinata e dotata di “senso”, di tracciare i confini e di individuare l’ambito di validità di siffatto regime discorsivo, secondo lo spirito del criticismo.
Muovendo da quest’atteggiamento, Kant concentra la sua attenzione non già, innanzitutto, sull’attività poietica dell’uomo, ma su quella pratica. Perché – si chiede Kant – nell’uomo la rappresentazione della storia si impone come rappresentazione di un intero teleologicamente ordinato? Se di “progresso” dev’esser possibile parlare sensatamente, ciò risponde all’esigenza dell’uomo di istituire attorno a sé «una società civile che faccia valere universalmente il diritto»;[26] ma poiché la società civile si realizza in modi variegati, alla loro creazione è necessario si accompagni la creazione di un rapporto esterno tra gli Stati anch’esso «regolato dal diritto».[27] Entrambi questi obiettivi sono, a loro volta, individuati a partire da una precisa comprensione di ciò che, nella sua essenza, caratterizza la natura umana, vale a dire lo sviluppo ulteriore della disposizione fondamentale dell’uomo che è la ragione.[28] Il problema della storia è pertanto il problema dello sviluppo di questa disposizione che, nell’uomo, per quanto sia già formata,[29] attende un suo perfezionamento. Questo è peraltro il “dovere incondizionato”, in cui la Critica della ragione pratica, nel 1787, riconoscerà la garanzia ultima e imprescindibile per la realizzazione di quella condizione umana autenticamente libera, cioè essenzialmente autonoma. Ma se il completo dispiegamento della ragione – massimo bene per l’uomo – segna il punto d’arrivo ideale della storia, il suo inizio rinvia necessariamente a quel momento decisivo a partire dal quale, per la prima volta, l’umanità ha dovuto far ricorso a questa sua disposizione, vale a dire l’uscita dell’uomo dallo stato di natura. Nell’impostazione kantiana risulta così tracciata, sin da subito, la “totalità” del fenomeno storico, la rappresentazione dell’“intero” della storia.
Fuori dallo stato di natura, nello spazio di questa “latenza” dispiegantesi nell’attesa del pieno compimento della disposizione naturale umana alla ragione, la storia si svolge sotto il segno della lotta e del conflitto. Da qui, la necessità, per Kant, di indicare nel diritto e nella pace le garanzie generali sotto cui ricavare la certezza di un possibile progresso dell’umanità. Resta tuttavia aperto il problema: posta la “necessità” (nel senso pratico di un Sollen rispetto al quale l’umanità è incondizionatamente chiamata a non sottrarsi) per la disposizione umana all’uso della ragione di giungere al pieno dispiegamento delle sue potenzialità, che cosa è lecito aspettarsi dal suo confronto con la realtà fenomenica? È, quest’ultima, da pensarsi nella sua struttura come favorevole o contraria alla realizzazione di questo scopo?
Inserendosi entro lo stretto margine offerto dalla terza antinomia della ragione circa la pura pensabilità di un non necessario disaccordo tra natura e libertà, fermo nella convinzione che le idee della ragione pura non siano affatto, in se stesse, di ostacolo allo sviluppo della destinazione naturale dell’uomo, ma che se ben usate abbiano, al contrario, una loro intrinseca utilità a questo scopo, Kant procede per “approssimazioni” e “tentativi” successivi nel rischiaramento dell’idea trascendentale connessa alla rappresentazione della storia concepita come un “tutto” teleologicamente ordinato. Stanti le difficoltà legate al carattere sempre “problematico” dell’idea, Kant si affida ogni volta a un Leitfaden, un “filo conduttore” da dipanare secondo le possibilità offerte dall’analisi trascendentale.
Nello studio del 1784, il “filo conduttore” è l’“idea”, appunto, di un “meccanismo”[30] agente al fondo della natura. La questione che Kant pone alla riflessione sulla storia può esser così riassunta: se sia possibile e legittimo pensare, sebbene solo problematicamente, la presenza nella natura di un “disegno provvidenziale”[31] che, senza entrare in contrasto con la libertà di ciascun individuo, e in linea di principio operando indipendentemente da questa, possa in qualche modo fungere da possibile supporto per il progresso dell’intera specie umana. La sfida è pensare il rapporto tra natura e libertà in conformità con i principi costitutivi della realtà fenomenica, ma in maniera tale che non sia per ciò stesso esclusa la possibilità di una natura che persegua anch’essa il bene per l’uomo, sebbene in un modo tutto suo, secondo una progettualità che non sia necessariamente in contrasto con la capacità umana di ricercare autonomamente e con modalità diverse la realizzazione del medesimo scopo.[32]
La tesi quarta dell’Idee afferma che «il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro antagonismo nella società, in quanto però tale antagonismo sia da ultimo la causa di un ordinamento civile della società stessa».[33] Il “meccanismo” in questione è quello della «insocievole socievolezza»[34] (die ungesellige Geselligkeit), vale a dire l’irriducibile tensione tra la tendenza (razionale) dell’uomo ad associarsi, da un lato (poiché nello stato di società trova le condizioni migliori per realizzare la propria umanità) e nella tendenza a dissociarsi, dall’altro, a causa di una “naturale” inclinazione a perseguire scopi egoistici. Il “meccanismo” della natura è problematicamente pensato da Kant nei termini di una dinamica che non interviene direttamente a contrastare la tendenza umana alla discordia, ma proprio non contrastando questa tendenza incentiva in tal modo l’uomo, fornendogli lo stimolo necessario per porvi rimedio in piena libertà.[35] Scrive infatti Kant:
Senza la condizione, in sé certo non desiderabile della insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno nelle sue pretese egoistiche deve necessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico; essi non colmerebbero il vuoto della creazione rispetto al loro fine di essere razionali. Siano allora rese grazie alla natura per la intrattabilità che genera, per la invidiosa emulazione della vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio! Senza di esse tutte le eccellenti disposizioni naturali insite nell’umanità rimarrebbero eternamente assopite senza svilupparsi.[36]
Di quest’impostazione, c’è però un aspetto che non sfuggì neppure a Herder, il quale, successivamente alla recensione ricevuta, non si sottrasse al confronto. Nella seconda parte delle Idee, apparse nel 1785, quindi dopo la stroncatura ricevuta, Herder denuncia questo che per lui è un limite della filosofia della storia di Kant. L’ipotesi del meccanismo considera e, certo, valorizza i benefici che questo apporta per la specie, ma a giudizio di Herder tralascia di considerare, ed anzi sminuisce, il prezzo che esso comporta tanto per i singoli individui, costretti a subirne gli effetti seppure in nome di uno scopo più alto. Se si parte dal presupposto che a stimolare il “progresso” sono in realtà i vizi dell’uomo, i suoi egoismi, il desiderio di potere e padronanza delle scarse risorse della terra, da cui scaturiscono la competizione e la lotta, ne dovrebbe conseguire che le sofferenze patite dai singoli individui, così come da intere generazioni, altro non sarebbero che un corollario posto in appendice ad un processo che per quanto atroce, appare tuttavia indispensabile per il miglioramento della specie: «Che cosa vorrebbe mai dire […] – chiede polemicamente Herder – che tutte le generazioni sono state fatte solo per l’ultima generazione, che troneggia sull’impalcatura crollata della felicità di tutte le generazioni precedenti?».[37] Herder considera inoltre assurdo (in parte travisando, a dire il vero, il ragionamento di Kant) che nella formazione artificiale degli Stati, più ancora che nel naturale formarsi delle “nazioni”, sia ricercata la condizione ultima della perfetta felicità degli uomini. Ma in un senso ancor più generale, quel che Herder rifiuta è l’impostazione stessa del sapere storico in Kant, che pretende di poter giudicare gli sforzi degli uomini, sulla base del carattere funzionale delle attività dei singoli individui rispetto agli scopi universali inerenti alla rappresentazione astratta della destinazione morale del genere umano.
Nella recensione alla seconda parte delle Idee di Herder, Kant risponde alle obiezioni ricevute. Dal suo punto di vista, tuttavia, le reazioni di Herder, così come le sue esigenze teoriche, non colpiscono il bersaglio verso cui tendono. Il problema, spiega Kant, non riguarda la felicità: «In tutte le epoche dell’umanità, come anche in tutti i ceti in una stessa epoca, si trova una felicità che è commisurata ai concetti e all’abitudine della creatura, alle circostanze in cui essa è nata e cresciuta: anzi, è perfino impossibile, per ciò che riguarda questo punto, un confronto dei gradi di essa e una preferenza per una classe o una generazione piuttosto che per un’altra».[38] Stesso discorso vale per ciò che Herder chiama il “carattere nazionale” dei popoli, e che Kant considera insufficiente per poter ragionare sulla storia in termini di “progresso” per l’umanità, «il cui più alto grado può essere soltanto il prodotto di una costituzione dello Stato ordinata secondo il concetto dei diritti dell’uomo»:[39]
Ben pensa l’autore – scrive Kant – che se i felici abitatori di Tahiti, mai visitati da nazioni più civili, nella loro tranquilla indolenza fossero destinati a vivere anche per migliaia di secoli, si potrebbe dare una risposta soddisfacente a questa domanda: perché essi esistono? Non sarebbe stato altrettanto bene che quest’isola fosse stata occupata con pecore e buoi felici nel semplice godimento?”.[40]
Se il metro di giudizio della storia dovesse davvero ridursi alla valutazione del grado di adeguamento di ciascuno (individuo, classe, generazione, popolo) alla rappresentazione soggettiva ed empirica della felicità, resterebbe sempre aperta la possibilità di considerare come vani gli sforzi messi in atto dall’umanità per affermare, attraverso la creazione di forme di organizzazione sociali e politiche, la propria libertà ed elevarsi al di sopra dell’ordine naturale del mondo.
Nei confronti delle esigenze metodologiche di Herder, Kant rivendica pertanto l’inderogabile priorità della fondamentale e prima sfida del sapere storico, il cui compito è per l’appunto fornire le dovute rassicurazioni affinché il valore della libertà, più ancora che il suo solo esercizio di fatto, motivato dalla duplice consapevolezza della nostra incompiutezza e del dovere incondizionato al perfezionamento che ad essa corrisponde, possa esser difeso nella sua radicale integrità. Perché dalla difesa di questo valore dipende innanzitutto la possibilità, per l’umanità, di salvaguardare la sua esistenza storica dal lancinante e costante dubbio dell’insensatezza, e soprattutto di sottrarre il nostro operoso stare al mondo dalla disperazione che da questo dubbio, se non adeguatamente arginato, può sempre scaturire.
Conclusione
Nella polemica con Herder, Kant focalizza l’attenzione sulle condizioni indispensabili affinché, data la rappresentazione puramente a priori della storia come un “intero”, sia possibile rilevare, tanto in natura quanto nelle azioni dell’uomo, i segni di un effettivo progresso in atto, che manifesti nel perfezionamento dell’umanità il suo scopo ultimo. La “naturalizzazione” herderiana della ragione è rigettata, non solo perché in contrasto con l’impostazione generale del criticismo kantiano, ma perché, anche laddove essa consenta intuitivamente, e per semplici analogie, di intravedere nel mondo l’attuarsi di un progressivo perfezionamento delle sue formazioni, la Bildung dello spirito non troverebbe nell’uomo il suo compimento. L’umanità, con l’insieme delle sue formazioni e della sua storia, configurerebbe piuttosto un passaggio, uno stadio intermedio, dalle cui ceneri e dall’appropriazione delle cui eredità si potrebbe certo immaginare l’avvento di uno stadio successivo, più perfetto, ma non per questo ancora necessariamente “umano”. Alle Idee di Herder, Kant rimprovera pertanto una mancanza di coerenza interna, dovuta all’assenza di una visione sistematica e rigorosa. Riconosce, insomma, ad Herder il merito di aver proposto un discorso suggestivo, ma fragile nel suo impianto, e soprattutto insoddisfacente se commisurato al suo scopo fondamentale.
Diversamente, per Kant la libertà individua inderogabilmente il punto focale dell’intero discorso sulla storia. Dalla morale, il criticismo kantiano ricava le indicazioni sistematiche per pensare l’umanità e la ragione come scopi del divenire storico; ma è sul terreno del diritto e della politica che, una volta assicurata alla filosofia la possibilità di rappresentarsi l’“intero” della storia, devono potersi ricavare le assicurazioni utili per poter parlare di “progresso del genere umano”. Si motiva così l’attenzione che Kant riserva agli Stati ed alle loro costituzioni, nel contesto di una riflessione tesa a saggiare le possibilità di una pace universale e duratura. In questa cornice, la filosofia trascendentale trae la legittimità necessaria per porre de iure la domanda decisiva: se e in quale misura, volgendo lo sguardo al futuro, sia ancora lecito sperare in merito all’avanzamento spirituale dell’umanità, ed alla possibilità di un suo avvicinamento ulteriore, costante e senza regressioni, al compimento del suo dovere incondizionato di perfezionamento.
Considerata dal punto di vista della filosofia di Herder, quest’assicurazione che il trascendentalismo kantiano offre alla filosofia della storia ha tuttavia un prezzo: la necessità di considerare l’umanità nel suo complesso, al di là e indipendentemente dalle individualità che la compongono, e che con le loro azioni ed il proprio sacrificio concorrono alla realizzazione di un perfezionamento spirituale dell’uomo. La visione kantiana del progresso appare allora, a sua volta, rigettata da Herder essenzialmente in ragione di questo presupposto, a partire dal quale si sarebbe poi giocoforza indotti a concepire e a valutare lo sviluppo del genere umano nei termini di una uniformazione e di adeguamento della realtà concreta ad un modello ideale dato a priori.
Nel porre l’accento sulle “nazioni”, piuttosto che sugli Stati, la filosofia di Herder può essere interpretata come una forma sui generis di cosmopolitismo, una sorta di cosmopolitismo “plurale”, nella convinzione che, di per sé, la varietà delle “nazioni” non implichi necessariamente il conflitto.[41] L’umanismo di Herder è il motivo principale per cui, nella sua prospettiva, la questione della guerra – che Kant insiste a porre in rilievo sul piano, non solo politico, ma anche e soprattutto antropologico – è tenuta in secondo piano rispetto al tema, giudicato preminente,[42] della Bildunga cui contribuiscono lo studio del linguaggio, della poesia e della cultura in generale. Dal suo punto di vista, il progresso dell’umanità consiste nell’esercizio della tolleranza, espressione di una forma mentis alla cui costruzione è compito della filosofia della storia provvedere: non prescrivendo modelli politici determinati, ma educando la coscienza ad apprezzare la ricchezza delle forme spirituali in cui l’umanità esprime ed oggettiva il proprio potenziale nel mondo.
Ciò non toglie, d’altra parte, la legittimità e la profondità dell’urgenza, tutta kantiana, di assicurare alla libertà umana le condizioni oggettive per la realizzazione del suo pieno compimento. Esigenza, questa, rispetto alla quale il richiamo herderiano alla sola educazione della coscienza storica non è in grado di fornire le garanzie richieste. Il motivo dell’azione formativa a cui la riflessione storica può e deve condurre rischia infatti di rimanere a sua volta un’indicazione “astratta”, qualora non si tenga nella dovuta considerazione le contraddizioni che attraversano la natura e la questione del male che affligge l’uomo.
Nel corso della loro polemica, né Herder né Kant hanno compiuto lo sforzo di comprendere le loro reciproche posizioni, di comprenderle alla luce delle rispettive esigenze di fondo.[43] Il loro confronto appare a tutti gli effetti un “dialogo mancato”, dove peraltro l’inconciliabilità delle rispettive posizioni non permette, né su un piano esegetico né su quello più speculativo, sintesi possibili. Ciò nonostante, ed anzi proprio in virtù del loro contrasto, alla luce della divergenza di queste prospettive, vengono delineandosi le due estremità dell’orizzonte problematico al cui interno si tiene la costellazione delle questioni che, attraverso le nozioni di “natura”, “storia”, “umanità”, si dispiegano attorno al tema della Bildung. In questa tensione appare ravvisabile il senso ancora “attuale” della riflessione filosofica sulla storia, con le sue inevitabili lacerazioni, oscillazioni e incertezze. Formarsi a questo compito è la sfida a cui il “rischiaramento” filosofico della storia oggi, come alla fine del XVIII secolo, continua ancora a richiamare.
[1] La polemica di Kant e Herder sulla filosofia della storia si consumò infatti nell’arco di tempo compreso dalla pubblicazione della parte I delle Ideen (libri I-V) nel 1784 e la parte II (libri VI-X) nel 1785. Le parti III e IV, apparse nei successivi due anni non vennero più recensite da Kant, il quale nel frattempo smise di interessarsi all’opera di Herder. Per una ricostruzione cronologica della polemica, cfr. la “Nota storica” alla recensione kantiana alle Idee di Herder, in I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, N. Bobbio et al. (cur.), UTET, Torino 1956, pp. 81-83. [2] Mi riferisco, in particolare, alla risposta che, nella lettera del 16 settembre 1785, Herder diede a Jacobi, esprimendo la sua volontà di non voler prendere posizione nella loro controversia perché Kant era stato il suo maestro. Per una ricostruzione dell’intera vicenda e del suo significato, cfr. V. Verra, Herder e il linguaggio come organo della ragione, ora in Linguaggio, mito e storia, cit., p. 5-22. [3] J.G. Herder, Werke, U. Gaier et al. (cur.), Suhrkamp-Insel, Frankfurt a.M. 1985-2000, vol. VI, pp. 21-22. [4] Al riguardo, cfr. V. Verra, J.G. Herder e la filosofia della storia, ora in Linguaggio, mito e storia. Studi sul pensiero di Herder, C. Cesa (cur.), Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 303-361. [5] Che diventerà esplicito bersaglio nell’opera Eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft (1799), in Sämtliche Werke, 33 voll., B. Suphan (cur.), Olms-Weidmann, Hildesheim-Zürich-New York 1994-1995, Bd. XXI, p. 199, tr. it. Metacritica, a cura di I. Tani, Editori Riuniti, Roma 1993. Al fondatore del criticismo, Herder imputa la “finzione” del trascendentalismo, che consiste nel difendere la “purezza” della ragione e l’“astrattezza” come tratto peculiare del procedere dell’intelletto. Su questi aspetti, cfr. C. De Pascale, Il razionale e l’irrazionale, Pisa, ETS, 2014. [6] Cfr. L. Formigari, La logica del pensiero vivente, Laterza, Roma-Bari 1977. [7] Cfr. N. Merker, Società e linguaggio in Herder, in N. Merker, L. Formigari (cur.), Linguaggio e società, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 3-28. [8] Sul rapporto tra Hegel e Herder, cfr. M.N. Forster, Herder’s Philosophy, Oxford University Press, Oxford-New York 2018, pp. 252-255. [9] Cfr. F.C. Beiser, The German Historicist Tradition, Oxford University Press, Oxford-New York 2011. [10] Al riguardo, cfr. E. Cassirer, Libertà e forma, Le Lettere, Firenze 1999, p. 146 ss. [11] Cfr. J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit. Zweiter Theil, in Sämtliche Werke, cit., vol. XIII, p. 343. [12] Cfr. F.C. Beiser, The Fate of Reason, Harvard University Press, Cambridge 1987, pp. 155-162. [13] Pur con le sue differenziazioni, l’idea di una forza agente al fondo del mondo materiale e psichico è in verità un topos abbastanza diffuso tra il XVII ed il XVIII secolo; basti pensare all’idea della vis viva in Leibniz, alla vis insita di Haller, al concetto di nisus formativus in Blumenbach, alla forza generativa di Needham o, ancora, alla vis essentialis di Wolff. Ad Herder si deve tuttavia la trasposizione di questo concetto di forza organica nell’ambito della storia dell’umanità, posta in rapporto dialettico con la tradizione, anch’essa pensata come una “forza”. [14] Nelle pagine introduttive delle Ideen, richiamandosi allo scritto del 1774, Herder riconosce gli evidenti limiti dello schema analogico che associa il divenire della storia umana allo sviluppo del singolo uomo e delle sue facoltà. Tale schema, che poteva infatti valere per “pochi popoli sulla terra”, non poteva costituire la chiave interpretativa per uno studio dedicato all’intero genere umano. Cfr. J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit. Erster Theil, in Sämtliche Werke, cit., vol. XIII, p. 4, tr. it. Idee per la filosofia della storia dell’umanità, V. Verra(cur.), Laterza, Roma-Bari 1992, p. 4. [15] L’atteggiamento di Herder al riguardo, è stato opportunamente notato, è in verità soggetto ad innumerevoli oscillazioni. Ogni volta che Herder abbraccia un determinato modello esplicativo della storia (progressivo, ciclico, a spirale…), non risparmia di manifestare puntualmente anche le sue riserve. Cfr. in merito i giudizi di M.N. Forster, Herder’s Philosophy, cit., p. 244 ss. [16] “Nella natura tutto è collegato, la morale e la fisica, come lo spirito e il corpo. La morale è soltanto una fisica dello spirito più alta, come la nostra destinazione futura è un nuovo anello nella catena della nostra esistenza che si attacca nel modo più preciso, nella progressione più sottile, all’anello costituito dalla nostra attuale esistenza, proprio come la nostra terra è collegata al sole, e la luna alla nostra terra” (J.G. Herder, Zerstreute Blätter, in Sämtliche Werke, cit., vol. XV, p. 275). [17] Sul rapporto di Herder con le scienze del suo tempo, cfr. H.B. Nisbet, Herder and the Philosophy and History of Science, MHRA, Cambridge 1970. [18] J.G. Herder, Zerstreute Blätter, cit., p. 287. [19] I. Kant, Recensionen von J.G. Herders “Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit”, in Akademieausgabe von Immanuel Kants Gesammelten Werken, 29 voll., De Gruyter, Berlin 1922-2009, vol. VIII, p. 43-66, tr. it. Recensione di: J.G. Herder, “Idee sulla filosofia della storia dell’umanità”, in Scritti politici, cit., pp. 151-175. [20] Ivi, p. 45, tr. it. cit., pp. 151-152 [21] Ibidem. [22] Ivi, p. 54, tr. it. cit., p. 160. [23] Cfr. ibidem. [24] I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, in Akademieausgabe, cit., vol. VIII, pp. 15-32, tr. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici, cit., pp. 123-139. [25] Significativo appare, in questo senso, l’impiego del termine “idea” nell’incipit del titolo, chiaro riferimento alle conclusioni della Dialettica trascendentale: cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781), in Akademieausgabe, cit., vol. IV, p. 207, tr. it. Critica della ragion pura, tr. it. G. Gentile, G. Lombardo Radice, rev. V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 254. [26] I. Kant, Idee…, cit., p. 22, tr. it. cit., p. 128. [27] Ivi, p. 24, tr. it. cit., p. 131. [28] Come Kant stesso chiarirà nell’Antropologia del 1798, è in virtù del suo carattere di “animal rationabile”, animale dotato della disposizione al ragionamento, che l’uomo può concepirsi e dirsi animal rationale: cfr. I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, in Akademieausgabe, cit., vol. VII, p. 322, tr. it. Antropologia dal punto di vista pragmatico, G. Garelli (cur.), Einaudi, Torino 2010, p. 339. [29] Cfr. I. Kant, Idee…, cit., p. 18, tr. it. cit., p. 125. [30] Negli scritti kantiani, i termini mechanismus, mechanisch, e i loro derivati o composti, hanno generalmente un’accezione negativa, soprattutto se riferiti agli uomini. Tutto ciò che è meccanico determina infatti, secondo Kant una “umiliazione” per la natura umana (su questo giudizio, si veda M. Mori, La pace e la ragione. Kant e le relazioni internazionali: diritto, politica, storia, il Mulino, Bologna 2008, p. 253 ss.). In generale, si può dire che l’elemento meccanico si determina come negativo ogniqualvolta la capacità di giudizio e di azione dell’uomo risulta essere disqualificata nel suo elemento più prezioso che è la libertà (cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in Akademieausgabe, cit., vol. V, p. 38, tr. it. Critica della ragione pratica, in Scritti morali, P. Chiodi (cur.), UTET, Torino 1970, p. 155; Metaphysik der Sitten, in Akademieausgabe, cit., vol. VI, pp. 383-384, tr. it. Metafisica dei costumi, G. Landolfi Petrone (cur.), Bompiani, Milano 2006, pp. 381-383). [31] Restio ad impiegare il termine tradizionale di “provvidenza”, Kant predilige l’uso, giudicato più “modesto”, del termine “natura”, per quanto di questo “disegno teleologico” l’esperienza non offra in verità nulla più che “deboli indizi”. In realtà, all’uso della nozione di natura soggiace in Kant, oltre che una preoccupazione di ordine teoretico, un’altra d’ordine eminentemente pratico. Nel pensare il teleologismo della natura, Kant ha infatti ben in mente la necessità di garantire l’integrità dell’autonomia morale dell’uomo. Indipendentemente dalla sua origine (che solo nel suo uso pratico la ragione può con certezza riferire ad una causa intelligente “divina”), la finalità della natura dev’esser tale da non poter assorbire al proprio interno, cioè sovradeterminare, la volontà buona umana, né tantomeno esserle di ostacolo impedendo la realizzazione degli scopi imperativamente comandati dalla ragione. L’approfondimento di quest’impostazione, che impegnerà lungo tutto il suo sviluppo l’intera indagine trascendentale sulla storia, indurrà Kant a verificare se e fino a che punto non sia possibile pensare una natura che, pur autonoma e rispondente a scopi propri (non necessariamente coincidenti con quelli che la ragione prescrive al soggetto morale), finisca in realtà col venire in soccorso alla volontà buona umana, quindi a sostenerla e, nei limiti del possibile, a incentivarla nel suo difficile cammino verso il compimento della disposizione umana fondamentale. Per un esame dell’uso del termine “natura” negli scritti giuridici, politici e filosofico-storici di Kant, e dunque sulle variazioni del suo significato e sulle sue implicazioni, cfr. A. Burgio, Strutture e catastrofi. Kant, Hegel, Marx, Editori Riuniti, Roma 2000. [32] Non è mancato chi, tra gli interpreti ha voluto scorgere in questa concezione della natura una prefigurazione della hegeliana “astuzia della ragione”. Solo che qui l’astuzia appare riferita alla natura, la quale si serve delle contraddizioni inerenti all’incompiutezza della natura umana per disporre, indipendentemente dalle scelte operate dai singoli individui, le condizioni oggettive per l’oggettiva realizzazione dei risultati parziali necessari in vista del raggiungimento dello scopo ultimo a cui l’esercizio consapevole della libertà deve poter condurre l’umanità. Cfr. L. Landgrebe, Fenomenologia e storia, il Mulino, Bologna 1972, pp. 53-78; K. Weyand, Kants Geschichtsphilosophie, Kölner Universitätsverlag, Köln 1963; M. Despland, Kant on History and Religion, McGill-Queen’s University Press, Montreal 1973; F. Kaulbach, Welchen Nutzen gibt Kant der Geschichtsphilosophie?, «Kant-Studien» 66 (1975), pp. 64-84; P. Vincieri, Natura umana e dominio, Longo, Ravenna 1984, pp. 161-186. [33] I. Kant, Idee…, cit., p. 20, tr. it. cit., p. 127. [34] Ibidem. [35] Cfr. P. Vincieri, Dalla guerra di tutti contro tutti alla pace perpetua, in Natura umana e dominio, cit., p. 172 ss. [36] I. Kant, Idee…, cit., p. 21, tr. it. cit., p. 128. [37] J.G. Herder, Ideen der Geschichte der Menschheit, cit., p. 338, tr. it. cit., p. 151. Cfr. Anche la lettera a Hamann del 14 febbraio 1785, in cui Herder perentoriamente dichiara di poter fare volentieri a meno del “piano infantile” di Kant, “secondo cui l’uomo è fatto per la specie e per la più perfetta macchina statale alla fine dei tempi” (J.G. Hamann, Briefwechsel, vol. V, Insel, Wiesbaden 1979, p. 363). [38] I. Kant, Recensionen von J.G. Herders “Ideen...”, cit., p. 65, tr. it. cit., p. 173. [39] Ibidem. [40] Ivi, p. 65, tr. it. cit., p. 173-174. [41] Cfr. I. Berlin, Three Critics of the Enlightenment, cit., p. 332 ss. [42] Nel suo Reise Journal del 1769 (cfr. J.G. Herder, Sämtliche Werke, cit., vol. IV, p. 379 ss.), Herder rivendica con forza la scelta di non dare spazio, nella sua riflessione sulla storia, al metodo della storiografia tradizionale che predilige lo studio delle battaglie, del sistema delle leggi, dei re e dei grandi personaggi. Herder giudica esplicitamente come “ripugnanti” la storia militare e politica, nella ferma convinzione che non sia possibile ravvisare, in esse, alcunché di moralmente edificante. Su questi giudizi, cfr. F. Meinecke, Le origini dello storicismo, Sansoni, Firenze 1973, cap. IX. [43] Cfr. C. Cesa, Dalla parte di Herder, in Kant e il conflitto delle facoltà, cit., pp. 303-320.