Il blog della SIFM
Stefano Semplici - Non c'è alternativa all'etica del rischio
Il 27 marzo il Deutscher Ethikrat ha approvato un parere sulla crisi causata dal coronavirus. Il testo contiene un paragrafo dedicato ai presupposti di legittimità e agli effetti negativi del lockdown, con una chiara opzione di metodo: ci deve essere un bilanciamento fra gli auspicati benefici per la sostenibilità del sistema sanitario e i danni temuti o immediati per la vita politica, sociale, economica e culturale delle persone. Alla protezione della vita umana non possono essere incondizionatamente subordinati tutti i diritti connessi a questi ambiti e ciò significa, in concreto, che la prevedibile recessione globale, la pesante contrazione del prodotto interno lordo e le relative conseguenze sul bilancio pubblico, così come le ricadute sul piano socio-psicologico e su quello delle condizioni elementari della cultura democratica, impongono un confronto serio su ciò che, seguendo i principi della solidarietà e della responsabilità, è più corretto fare.
L’esito di questo confronto rimane aperto ed è ovviamente rivedibile nel tempo, ma il documento lascia allo Stato la possibilità, nei limiti fissati dalla Costituzione, di “determinare il livello accettabile di rischio per l’individuo e la società”. Occorre riconoscere con onestà che questo è il punto e trarne le logiche conseguenze. Tenendo presente che un’etica del rischio è anche un’etica del linguaggio con il quale si rappresenta la crisi. Tutto cominciò, in Italia, con la rassicurazione che la situazione era “sotto controllo” e che la popolazione non doveva preoccuparsi. Era il mese di febbraio e i fatti, purtroppo, hanno dimostrato che non era così. Poi è arrivato un refrain altrettanto incauto: “andrà tutto bene”. Ci sono già decine di migliaia di morti e il più grande disastro economico dalla fine della seconda guerra mondiale. Adesso sembra giunto il momento della sicurezza, con la quale conciliare il diritto alla salute e quello al lavoro. E anche in questo caso il linguaggio utilizzato concede spesso troppo alla tentazione di scansare la realtà, dura e per ora ineliminabile, del rischio.
Ridurre al massimo i rischi è possibile e naturalmente doveroso. Veicolare, anche solo involontariamente, l’idea che si possa garantire il “rischio zero” è invece pericoloso. La convivenza con il virus implica che qualcuno, con ogni probabilità, continuerà ad ammalarsi. Un bilanciamento che parta naturalmente dalla priorità della difesa della vita e della salute, ma anche dal riconoscimento dei limiti inevitabili di questa operazione, è cosa ben diversa dalla promessa di una sicurezza che tiene tutto sotto controllo. Questa promessa, semplicemente, non si può fare. Non aiuta a evitare gli errori che sono sempre in agguato. E può facilmente spingere i cittadini a pensare che, di fronte a un contagio, la strada giusta sia quella del tribunale. In qualche caso potrebbe davvero essere così. Un’etica del rischio condiviso ci aiuta però a comprendere che non sempre, dove ci sono vittime, ci sono anche colpevoli. C’è un’umanità vulnerabile, che sceglie come andare avanti insieme.
